
Che cos’è una provocazione. La storia di un gruppo di soldati americani grezzissimi che ha in mente di far saltare in aria Hitler in un teatro, e ci riesce anche. Il dramma di un adorabile vecchietto che, quando la sua amata compagna si ammala, preferisce ucciderla piuttosto che vederla morire priva di senno. Una vicenda che ha per protagonista la figlia di un criminale, brutalizzata da una piccola comunità di brave persone. Provocazione è prendere qualcosa a cui siamo affezionati, a un’idea che non metteremmo mai in discussione e ribaltarla, screditarla. Generare una crisi nel nostro senso della morale, spingere al limite la percezione che abbiamo del consentito, del corretto. La provocazione nell’arte, nel cinema ha sempre uno scopo. Se resta relegata all’estetica, al sadismo, a qualche etichetta che un autore si è attaccato o che gli hanno affibbiato… allora non è provocazione. È marketing, al massimo, o un modo furbo per mascherare la mancanza di idee.
La presentazione a Venezia 75 de La favorita ha portato con sé una scia di applausi scroscianti e ringraziamenti a Yorgos Lanthimos per aver saputo così bene, con dissacrante ironia (?), ritrarre la politica di corte, l’intrigo al femminile. Ma il racconto della lotta senza riserve tra due favorite per l’affetto della regina Anna - interpretata da Olivia Colman, attrice immensa, prossima Elisabetta II nella serie tv The Crown - viene messo in scena come un'operetta (che non si capisce mai fino a che punto ironica e fino a che punto drammatica, manca di coraggio e di strumenti in entrambe le direzioni), intenzionata a raccontare le donne attraverso i loro peggiori difetti. Anzi, attraverso quelli che nel sentire comune sono i peggiori difetti: isteria, tendenza naturale alla menzogna, dipendenza sentimentale, sindrome di Stoccolma.
Le due favorite del film (Emma Stone e Rachel Weisz) guerreggiano a suon di occhi languidi, trabocchetti elementari, schiaffoni, avvelenamenti (ma dai) e seduzione carnale: e la La favorita diventa presto un racconto morboso, voyeristico, strisciante.
Possiamo sorvolare sul fallimento della satira al potere; anche se, va detto, non c’è satira nel ritratto della fragile regina Anna (su cui, per altro, la biografa ufficiale nel Regno Unito ha avuto qualcosa da ridire) ma un affresco grottesco della Regina e di chiunque le fosse attorno. Riusciamo anche a sopportare gli insistenti fish-eye e tutti i possibili effetti “buco della serratura”, a tollerare le numerose insensatezze di sceneggiatura (il siparietto di Sarah nel bordello). Ma è impossibile convincersi che La favorita sia un film che racconta il potere attraverso le donne: esprime, piuttosto, un punto di vista – pure un po’ misogino – su come le donne esercitano e conquistano il potere. Luoghi comuni sono messi in scena visivamente (è Sarah quella che, letteralmente, indossa i pantaloni; e ovviamente le due favorite quando battibeccano lo fanno imbracciando fucili) e nei dialoghi, piuttosto elementari.
Sicuramente qualcuno dirà che lo scopo de La favorita è la provocazione, che se il film fa arrabbiare allora ha compiuto la sua missione. E non c’è niente di male a fare film su donne brutte e cattive (Che fine ha fatto Baby Jane?, Monster), a patto che i personaggi siano sempre essere rispettati... soprattutto gli anti-eroi. Prima di inneggiare a Lars Von Trier o Michael Haneke, forse sarebbe meglio osservare come questi due autori raccontano le donne e gli uomini nelle loro storie: come esseri spudorati, crudeli, guidati da sentimenti potenti e devastanti. Si può dire lo stesso delle tre protagoniste de La favorita?