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Fyre: La più grande festa mai avvenuta

11/02/2019 12:00

Marco Filipazzi

Recensione Film,

Fyre: La più grande festa mai avvenuta

Un senso di autodistruzione permane per tutta la durata della visione

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I documentari riescono ad aprirci gli occhi su realtà che possono apparire lontanissime dalla nostra, oppure raccontarci storie tanto assurde che, se fossero film, molto probabilmente lo spettatore a un certo punto scoppierebbe in una sonora risata. Ma se quello che stiamo osservando è un documentario... allora la storia deve essere reale per forza. Esperienze e testimonianze dirette ci vengono narrate da chi le ha vissute in prima persona, sulla propria pelle; ascoltare queste voci spesso può addirittura mettere lo spettatore a disagio se l’argomento è particolarmente ostico. Ma non è necessario andare a scomodare autentici macigni come Mea Maxima Culpa - Silenzio nella casa di Dio o Lucent per farsi torcere le budella. A volte bastano anche storie ben più semplice e “innocue”.


Accade guardando Fyre: La più grande festa mai avvenuta, documentario originale Netflix approdato sulla piattaforma streaming lo scorso 18 gennaio, che ci racconta con lucida freddezza la nascita di un’idea, il suo tentativo di realizzarla e l’inevitabile collasso preannunciato già dal titolo. All’inizio vi è l’idea di una nuova applicazione musicale, Fyre Media App, che avrebbe permesso agli utenti di ingaggiare per eventi privati artisti musicali e celebrità varie. Poi, per lanciare in grande questa nuova app, i loro ideatori, il giovane imprenditore newyorkese Billy McFarland e il rapper Ja Rule, si chiedono «E se per promuoverla organizzassimo un festival musicale di lusso alle Bahamas?».


Oggettivamente un’idea clamorosa, perfettamente in linea con il target altissimo a cui l’app era rivolta. E sempre sull’onda di questo marketing geniale, il 12 dicembre 2016 supermodelle e influencer di Instragram del calibro di Emily Ratajkowski, Bella Hadid ed Elsa Hosk hanno postato in simultanea la medesima foto: una fiamma stilizzata su sfondo arancione. La curiosità dei followers schizza alle stelle, alimentata da un breve spot che promette spiagge immacolate, modelle e musica in «due weekend ai confini dell’impossibile». Tutto ciò con biglietti giornalieri che oscillavano tra 1.500 e i 12.000 dollari, andati in sold-out in meno di 48 ore. Dietro la promessa di questo sogno di plastica, però, si celava un’organizzazione assolutamente incapace di gestire e, soprattutto, allestire un evento di tale portata, più concentrata a sperperare i soldi degli investitori che a farli fruttare. Ma questo è solo l’inizio del documetario.


Un senso di autodistruzione permane per tutta la durata della visione. Impossibile capire se Billy McFarland, l’autore di questa disfatta annunciata, sia un gran furbone o semplicemente un idiota colossale. Perché da subito la storia del Fyre Festival appare come un autentico suicidio: guardare gli scioccanti retroscena dell’organizzazione è come assistere a qualcuno che si sta dirigendo in auto verso uno strapiombo e, anziché frenare ,seguita a schiacciare il piede sull’acceleratore. Impossibile non prendere coscienza per tempo dell’inevitabile destino? Ciò che Billy fa è semplicemente chiudere gli occhi e ripetere che andrà tutto bene. E la cosa più incredibile è che tutta la gente che gli sta intorno si fida di lui!


Fyre: La più grande festa mai avvenuta è anche però una doversosa riflessione sulla patina scintillante (e ammaliante) che riveste i nostri profili social e sulla mentalità di un’intera generazione votata più all’apparenza che alla sostanza. Ragazzi che hanno speso 12.000 dollari sulla base di uno spot di 30 secondi visto su Instragram, ingolositi dalla promessa di poter trascorrere un weekend da sogno, fidandosi di una manciata di foto e alcuni progetti visionabili online su di un sito ben confezionato.


Non c’è nulla nel corso del documentario che sia supportato da una logica coerente, che abbia una base solida su cui costruire ragionamenti, fare calcoli e sviluppare progetti. Anche i personaggi più stoici a un certo punto della narrazione si sgretolano, mandando in frantumi la loro morale e professionalità. Se fosse stato un film avremmo sicuramente dato la colpa a qualche sceneggiatore poco capace... ma si tratta di un documentario e la sola cosa che possiamo fare è rabbrividire e farci torcere le budella.


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