In un periodo storico come quello attuale, in cui il progresso avanza ma aumentano i tabù nella morale, nel costume e nella società, Meryem Benm'Barek-Aloïsi ci porta in Marocco – precisamente a Casablanca – per farci conoscere Sofia: una ragazza di 20 anni che cerca di nascondere la sua gravidanza alla famiglia. Al momento del parto, quando più nulla può essere ormai celato, la neo mamma dovrà farsi scudo dalle costrizioni familiari che vorrebbero spingerla al matrimonio (una tappa obbligata) con l’ignoto padre del bambino. Questo film, che prende il titolo dal nome della protagonista, ci guida nei territori dell’assurdo che non sono costituiti dagli scorci di una terra dalle mille profondità, bensì dalla dubbia moralità di chi la abita. Benm’barek passa al setaccio le convinzioni di una famiglia bigotta che preferisce la segregazione all’espansione dei rapporti umani. Tale assunto si staglia contro le nuove generazioni che si ritrovano, come la protagonista, a scontrarsi con lo status quo. La società non garantisce loro una vera e propria emancipazione; infatti sono costrette a fare i conti – oltre a doversi barcamenare fra realtà e forma – in difesa di una condotta distorta. Celare i propri istinti, soffocare i propri desideri, per rispettare il buon nome di una famiglia fondata secondo canoni e stilemi antiquati. Sofia, dunque, va a inserirsi in un filone più ampio che non cerca solo di analizzare la condizione della donna – concepita, in Marocco (ma non solo), esclusivamente come portatrice sana di vita, senza aspirazioni o futuro – ma vuole interrogarsi (attraverso gli occhi puri e disincantati della gioventù) sullo spinoso tema dei diritti individuali. Sofia, quindi, è un film basato sulla privazione che dovrebbe (secondo il delirio sociopolitico vigente in talune dimensioni geografiche) spingere alla realizzazione utopica di un mondo migliore. La regista coltiva la speranza che ognuno, nato dalla parte più complicata del mondo, riesca a liberarsi dalle catene che un determinato retaggio culturale può imporre. Il girato respira poco dal punto di vista narrativo, ma solamente perché ci immette – senza alcuna mediazione – all’interno di paradossi ingestibili. Dove la famiglia è più simile a un’istituzione che a un nucleo, in cui vige esageratamente la legge del patriarcato. È proprio questa difficoltà che Meryem Benm'Barek-Aloïsi racconta in maniera dettagliata, facendo notare quanto per la protagonista non ci siano sbocchi alternativi. Se non quelli che lei stessa si crea, fondati sulla menzogna. Ecco, dunque, che si fa leva anche sul concetto di contaminazione: quello che viene considerato puro viene “macchiato” da retaggi oscuri, il modo più facile per costruire muri piuttosto che abbatterli; allora prevale la menzogna alla trasparenza, l’incomprensione alla chiarezza, l’aridità alla distensione. Si presta il fianco a un latente sviluppo psicologico della trama, che dovrebbe essere la ciliegina su una torta fatta di sottrazioni, che non trova la giusta enfasi ma rende l’idea di quanto certi diritti non siano affatto scontati e restino il frutto di silenziose conquiste avvenute nei secoli. Potrebbero, perciò, venire meno da un momento all’altro se non ce ne prendessimo cura adeguatamente .