Se nel cinema esiste un sottogenere femminista per eccellenza, questo è senza dubbio il rape&revenge. Potrebbe sembrare assurdo definire femminista un filone che nel suo nome contiene la parola "stupro", soprattutto in un periodo storico in cui Hollywood si trova sotto una sassaiola di accuse di molestie sessuali ed è sempre più sensibilmente ipocrita in merito all’ondata di pink power che sta imperversando. Ma se è vero che il R&R mortifica la figura della donna, vittima di violenza, umiliazioni e stupro (spesso di gruppo), è altrettanto valido il concetto che la seconda parte di questi film è sempre caratterizzata da torture e morti atroci per gli aguzzini delle suddette vittime. Ed è proprio tra il sangue e le mutilazioni che il R&R glorifica le donne sin dal 1978, anno d’uscita nei cinema di Non violentate Jennifer - non il primo esponente, ma di certo quello più influente, che ha dato la spinta al filone -, approdato in svariati paesi del mondo con il titolo Day of the woman. Fino a oggi, però, nessuna pellicola rape&revenge era mai stata diretta da una donna: una lacuna, questa, colmata da Coralie Fargeat. Revenge, infatti, è il primo film del genere scritto e diretto da una regista, e l’intero marketing della pellicola è stato giocato su tale concetto. Non solo: per Coralie Fargeat è anche l'esordio alla guida di un lungometraggio, dopo un paio di corti girati nella prima decade dei 2000. Il risultato, ampiamente al di sopra delle aspettative, si discosta molto dai prodotti grezzi, exploitation e tendenti al b-movie degli albori (parliamo comunque degli anni ’80, e ne è passata di acqua sotto i ponti!) per indossare una veste - un po' glam, un po' pop - che meglio si addice ai nostri tempi. Tutto questo senza però tralasciare i tre concetti cardine del genere. Numero uno: la vittima, che in questo caso è la modella italiana Matilda Lutz, sin dai primi fotogrammi è ritratta come un autentico oggetto del desiderio, andando a saccheggiare senza pudore gli occhiali da sole a cuore e il lecca lecca della Lolita di Stanley Kubrick. Numero due: lo stupro, con una mossa inaspettata e molto insolita per il genere, non ci viene mostrato e si consuma dietro una porta chiusa (vediamo solo gli effetti sul Matilda, sul suo corpo e sulla sua mente durante una scena di “resurrezione” che sconfina nel paranormale e richiama a gran voce un altro R&R, Savaged). Tre: la vendetta occupa il restante 80% del film; giustamente, dato che è sbandierata da un titolo a caratteri cubitali fucsia. Revenge è stato girato in Marocco: la vendetta si svolge in una caccia estenuante in mezzo al deserto in cui i ruoli di vittima e cacciatore continuano a ribaltarsi mantenendo il livello di tensione sempre altissimo. Il tutto infarcito con una serie di citazioni dozzinali ma piacevoli (Rambo, Mad Max, Kill Bill) e simbolismi grossolani ma comunque efficaci (la mela che diventa marcia, la fenice che risorge). Anche durante tutta questa lunghissima parte, Coralie Fargeat non manca di seguitare a ritrarre Matilda come una creatura bellissima (ma letale), mostrando il suo corpo sporco, ferito, sanguinante, martoriato... ma comunque attraente. Inoltre Revenge non manca d’innaffiare tutto con abbondanti dosi di sangue: litri e litri che nella scena finale sembrano quasi colare dallo schermo, imbrattando le pareti del nostro salotto di casa. Un trip allucinante di peyote, iperviolenza. A fine visione è impossibile non sentirsi appagati da tutto ciò, convinti di aver visto un film sì imperfetto, ma confezionato con grande stile.