Leaving Neverland è un documentario che si porta dietro molte contraddizioni, così come il suo protagonista: Michael Jackson. Il re del pop, scomparso nel 2009, ha ispirato generazioni e folle di giovani. Chiunque era ammaliato dal suo carisma e dal suo atteggiamento che nascondeva, però, qualche ombra. Sentirsi diverso, a tratti incompreso, in un mondo pieno di opportunità e altrettante insidie. Le stesse su cui ha voluto far luce, probabilmente, Leaving Neverland che si poneva come obiettivo primario quello di scoperchiare il non detto su Jackson. Dan Reed ha voluto provare a far emergere qualcosa di cui parlare, che coinvolgesse Michael Jackson e lo colpisse nel profondo: lì dove fa più male, precisamente attorno alle accuse di molestie su minori che sono state mosse all’artista nel corso del proprio vissuto. Reed apre - a modo suo - questo vaso di Pandora a dieci anni dalla morte di Jackson rimettendo in discussione tutto. C'è ancora, però, qualcosa su cui disquisire? Se sì, perché farlo una decade dopo la morte e non a tempo debito, durante il processo? Qualcosa non torna. Nel corso della visione, il documentario si fregia di una prima parte piuttosto realistica. O meglio, comprovata da fattori riscontrabili: il rapporto di amicizia che Jackson aveva con i più piccoli, l’affabilità e disponibilità nel prestarsi a ogni iniziativa che mettesse in risalto il suo impegno sociale (Jackson è il maggior artista musicale, riconosciuto dal Guinness dei primati, ad aver sostenuto 39 diverse associazioni di beneficenza per un ammontare pari a 400 milioni di dollari). Nella seconda parte Reed cambia registro, vengono coinvolti Wade Robson e James Safechuck, i testimoni a cui Reed si affida per dimostrare la propria tesi: smontare il mito di Jackson, definendolo orco e pedofilo. I due uomini passano il resto del girato a raccontare morbosamente presunte molestie subìte, davanti a loro una telecamera che li inquadra senza esitazione. Effettivamente, nel corso delle 4 ore di girato si palesano parecchie incongruenze fra la realtà e i fatti raccontati dalle parti chiamate in causa, oltre a questo colpisce l’assoluta mancanza di contraddittorio. Lo stesso che ha chiesto la figlia di Jackson, notando che non ci fosse uno straccio di prova addotta alle accuse mosse. È stato infamato un morto, senza apparente motivo. E i morti, in America, non possono essere tacciati di diffamazione perché l’accusa – stando alla giurisprudenza americana – non si applica alle persone decedute. Wade Robson, nel 2005, dichiarò davanti ad un giudice di non aver subìto alcuna molestia da Jackson: «Niente di sconveniente è accaduto tra noi», disse. Ecco perché riesce difficile credere alla miriade di ricostruzioni (fallaci) che emergono in questo lavoro: non solo perché alcune date asserite non coincidono, per rendersene conto basta controllare gli eventi a cui si fa riferimento su Google o consultare il materiale raccolto dall'FBI in 13 anni di indagini ({a href='https://vault.fbi.gov/Michael%20Jackson'}disponibile online{/a}), ma anche per mancanza delle altrettante testimonianze autorevoli che affermano quanto Jackson sia stato in vita un’ottima persona piuttosto che un barbaro maniaco. Basta chiedere ad Alfonso Ribeiro – Carlton in Willy il principe di Bel Air – che sottolinea: «Sono stato anch'io un bambino di 12, 13, 14 anni. Ho conosciuto Michael, sono uscito con lui e mai niente di simile si è verificato. Non è mai successo nulla di discutibile. Io semplicemente non ci credo». Lo stesso rimarca l’attore Macaulay Culkin, piccola star di {a href='https://www.silenzioinsala.com/5339/leaving-neverland/recensione-film'}Mamma, ho perso l'aereo{/a}: «So che per chiunque altro possa sembrare chissà cosa, ma per me era solo una normale amicizia. Le accuse contro Michael sono assolutamente ridicole». Alla luce di quanto raccolto, dall’opinione pubblica e dal materiale giudiziario, un lavoro come quello fatto da Reed può definirsi solamente artificioso. Siamo dinnanzi ad una vera e propria pantomima, che ha perseguito l’intento malsano di inseguire e riformulare un’accusa postuma, per voler indurre ad un processo cinematografico e televisivo prima ancora che giudiziale: una vera e propria macchina del fango, senza alcun ritegno non soltanto per i fan ma anche per quei familiari del divo che con Leaving Neverland hanno dovuto fronteggiare un esempio avanguardista di fake news.