Triple Frontier è approdato lo scorso 15 marzo su Netflix come produzione originale della piattaforma streaming, ma la storia dietro la pellicola è lunga e travagliata. Un progetto che si trascina dal 2010, sin da quando era in mano alla Paramount Pictures e a bordo vi era una Kathryn Bigelow fresca fresca di Oscar. La sceneggiatura del film è firmata da Mark Boal, che dal 2008 in poi è stato uno dei collaboratori più fidati della regista (sceneggiatore proprio di The Hurt Locker, che le valse la statuetta, ma anche di Zero Dark Thirty e dell’ultimo Detroit); ed è uno dei pochi nomi legati al progetto che negli anni è rimasto invariato. Nei panni dei protagonisti si sono succeduti una sfilza di nomi di prim’ordine: prima Tom Hanks e Johnny Depp; poi Will Smith, quando il progetto passa nelle mani della Atlas Entertainment e J.C. Chandor subentra alla Bigelow in cabina di regia. Nel 2016 si va molto vicini a far partire la produzione, a cui sono legati Channing Tatum, Tom Hardy e Mahershala Alì, ma tutto salta a pochi mesi dall’inizio delle riprese. Nel maggio del 2017 Netflix acquista i diritti del film e fa un nuovo re-casting (con Casey Affleck e Mark Wahlberg, sostituiti poi rispettivamente da Oscar Isaac e Ben Affleck); nel marzo 2018 si inizia finalmente a girare tra Hawaii e Colombia. Il film si presenta come un heist movie (letteralmente “film del colpo grosso” o film di rapine) a tinte militari, che in un paio di frangenti va a pescare persino alcune suggestioni da Narcos, serie di punta della piattaforma on-demand. Un signore della droga si nasconde nella giungla sudamericana con un’autentica fortuna. Il militare Santiago “Pope” Garcia è sulle sue tracce da anni quando finalmente riesce a scovare il suo nascondiglio: Pope raduna quindi la sua vecchia squadra, ex soldati dei corpi speciali ormai fuori dal giro, per andare in Sudamerica, prendere quanti più soldi possibili e tornare in patria senza che nessuno si faccia male. I militari, che per conto del governo si sono sporcati le mani per anni e ora si ritrovano a dover tirare a campare, la considerano un po' la loro “buona uscita”. Nonostante la cura con cui preparano la rapina, qualcosa durante il colpo va storto e la fuga con i soldi diventerà una vera e propria corsa per salvarsi la pelle. La storia è tutta qui: asciutta, quasi minimale, simile a quella degli action muscolari degli anni ’80 e ’90, che puntavano tantissimo sul carisma dei loro protagonisti (Stallone, Schwarzenegger, Van Damme) e su scene efficaci e ben coreografate. Di carisma qui ce ne è da vendere, a partire da quello che è il vero protagonista del film, Oscar Isaac, di colpo invecchiato, stanco e ambiguo nei panni di Pope, e dalla sua spalla Ben Affleck, ex-comandante ormai arreso alla vita da civile, che vede in questa missione una sorta di riscatto personale. La squadra è completata dal pilota Pedro Pascal (altro tassello del fil rouge che unisce Triple Frontier a Narcos), Charlie Hunnam, a cui spetta l’onere di essere un po’ la coscienza del gruppo, e infine il defilato Garrett Hedlund, che tra tutti è quello che emerge di meno. La chimica tra di loro funziona e funzionano anche le scene di dialogo, necessarie per capire la psicologia di questi personaggi così complessi, che lasciano intravedere un passato fatto di violenza e un presente in cerca di redenzione. Ed è forse questo il punto più dolente: una caratterizzazione psicologica riuscita solo a tratti, che privilegia alcuni personaggi (quelli di Isaac e Affleck, soprattutto) a discapito di altri, che vengono ridotti a mere macchiette. Nonostante questo, però, Triple Frontier si dimostra un film solido, d’altri tempi, che fa della propria essenzialità il punto di forza e che usa le scene d’azione con parsimonia: eppure, quando queste scorrono sullo schermo, è impossibile non apprezzarne la tensione. Un film che si concentra tantissimo su una disperata corsa verso la salvezza e che a tratti risulta impacciato nel mettere in scena un discorso che ha a che fare con “la necessità del denaro” ma che trova proprio nel suo finale (moralista al punto da sfiorare il pacchiano, ma comunque bellissimo) una chiusura pressoché perfetta.