Esistono film che ti si incollano alla pelle e ti entrano dentro senza poter distaccarsene per molto tempo, per i contenuti, per la forza delle immagini o, più semplicemente, per il livello di coinvolgimento emotivo provato in quelle due ore circa di visione. È l’effetto che fa La vita invisibile di Eurídice Gusmão, straordinaria opera del regista brasiliano Karim Aïnouz, premiato come Miglior film nella sezione “Un certain regard” del 72° Festival del cinema di Cannes e tratto dal romanzo omonimo di Martha Batalha. Il film di Aïnouz ha un incipit vagamente inquietante: due ragazze, dall’alto di una scogliera, osservano lo spettacolare mare di Rio de Janeiro. Sono Guida ed Eurídice Gusmão, uniche figlie di Ana e di Manoel, un fornaio di origine portoghese. Improvvisamente le giovani si alzano e si allontanano, addentrandosi nella foresta. Guida è più rapida a raggiungere la cima del monte, lasciando indietro Eurídice che inizia a chiamarla sempre più allarmata e impaurita, delineando già con questo folgorante inizio le personalità delle due protagoniste: più estroversa e intraprendente Guida, più riflessiva Eurídice. Successivamente, con una breve ellissi temporale, la scena si sposta a Rio nel 1950, nella casa della famiglia Gusmão. Qui osserviamo Eurídice e Guida rispettivamente di diciotto e vent’anni, vivere un rapporto di totale complicità, ciascuna complementare all’altra ed entrambe tese a non farsi schiacciare da un padre dispotico e autoritario che le vorrebbe asservite alle sue rigide regole. Ma entrambe le ragazze coltivano propri sogni: Eurídice, appassionata pianista, vorrebbe andare a studiare Conservatorio a Vienna; Guida sogna l’amore della vita e, credendo di trovarlo in un marinaio, fugge con lui in Grecia, per comprendere poi di essere stata raggirata. Tornata in Brasile, single e incinta, Guida si vedrà ripudiata dal padre che la caccerà di casa di fronte agli occhi impotenti della madre. Inizierà per lei una vita difficile, alla ricerca di una maniera dignitosa per vivere e crescere un figlio in un mondo che considera le donne come lei solo scarti della società. Nel frattempo Eurídice, sposata con Antenor, anch’egli maschilista e autoritario, tenterà di far coesistere i suoi obblighi di moglie e madre con il desiderio mai sopito di dedicarsi professionalmente al pianoforte. Dopo essersi perse di vista, saranno tenute all’oscuro dei loro rispettivi destini da Manoel e Antenor, ma non perderanno mai la speranza di potersi ritrovare. Il film di Karim Aïnouz segue con frequenti salti temporali il destino delle due protagoniste dalla giovinezza sino alla vecchiaia. Rappresentando una società, quella brasiliana dell’epoca – per altro non molto diversa da quella italiana dello stesso periodo – patriarcale e fallocratica, dove la donna era invisibile al mondo, costretta ad annullarsi per essere, unicamente, moglie e madre. La vita invisibile di Eurídice Gusmão utilizza lo stilema del melodramma per disegnare i ritratti di due donne forti, che fanno di tutto per non adattarsi alle imposizioni della società e che vengono separate per sempre dalla violenza e dalla repressione maschile. Non per questo rinunceranno a ricercarsi per tutta la vita, consapevoli che, anche se lontane fisicamente, i loro spiriti così affini non si sono mai separati. Quello che colpisce del film non è tanto la storia in sé, seppur estremamente coinvolgente, quanto il modo con cui il regista la racconta. La fotografia di Hélène Louvart, fatta di colori forti che fanno da contrasto al grigio squallore della società dell’epoca, dialoga magistralmente la macchina da presa che filma ogni dettaglio del comportamento dei personaggi, ogni loro minima espressione, cogliendone appieno la psicologia. Di particolare efficacia sono soprattutto le scene di sesso, laddove osserviamo come poteva reagire una donna negli anni ’50 al suo primo rapporto con il marito, o come potesse essere complesso il cercare di non rimanere incinte senza l’uso dei contraccettivi. Strepitose le interpretazioni delle due protagoniste, Carol Duarte nel ruolo di Eurídice e Julia Stockler in quello di Guida, che mettono a nudo i sentimenti dei loro personaggi: da un lato la paura, la sottomissione al maschio; dall’altro l’indomita volontà nel ricercare, per tutta la vita, l’emancipazione personale e a rientrare in contatto fra loro. Sino a quando la vita di Eurídice non sarà veramente resa invisibile da una meschina decisione di Manoel (Antònio Fonseca) e Antenor (Gregorio Duvivier) in una scena bellissima che ci fa intuire lo sguardo sconvolto della donna ripresa appositamente sfocata a sottolinearne la progressiva scomparsa dal mondo. La vita invisibile di Eurídice Gusmão è una riflessione intensa e appassionata sulla famiglia e sull’amore, che si può racchiudere in una frase pronunciata da Eurídice: «La famiglia non è sangue: è amore». Un film bellissimo, rivelazione dell’anno che va ad arricchire il già ricco e qualitativamente elevato panorama della cinematografia brasiliana contemporanea.