Presentato in concorso alla Festa del Cinema di Roma, il film è una moderna interpretazione della tragedia di Sofocle diretta da Sophie Deraspe, e scelto dal Canada per concorrere all’Oscar. La giovane Antigone (Nahéma Ricci), con i fratelli Étéocle e Polynice, sua sorella Ismène e la nonna Ménécée si rifugia a Montreal dopo l’assassinio dei genitori. Studentessa modello, si fa in quattro per tenere unito questo piccolo nucleo familiare superstite. Quando Étéocle viene ucciso dalla polizia, suo fratello Polynice, un piccolo spacciatore, viene contemporaneamente arrestato per aver aggredito un agente. Motivata dal senso del dovere verso la famiglia e dal ricordo dei genitori, Antigone decide di mettere a repentaglio il suo futuro per proteggere quello della famiglia. È un lavoro davvero interessante quello realizzato dalla regista Deraspe (alla sua opera terza), che decide di dare voce a una generazione: quella di ragazzi feriti ma forti, che hanno una storia con cui fare i conti e il diritto di desiderare un futuro migliore. Nel farlo sceglie di usare il passato: con molta teatralità, colloca tutto lo spettro dei campi semantici di un certo cinema di genere - quello che dà voce agli immigrati, che parla di integrazione e dei problemi di diritti di cittadinanza - su un vero e proprio palcoscenico, adattando elementi classici della tragedia a visi di giovani millenial delusi ma combattenti. Così il film parte dal classico: sin dalle prime scene è palese il riferimento alla celebre tragedia di Sofocle, alla quale la regista strizza l’occhio in maniera evidente (e a volte quasi troppo didascalica: dalla cena che apre il film, ai nomi dei protagonisti, all’analista di nome Therese-Tirese, fino a riferimenti per strada a Edipo). Ma il classicismo serve da volano per il tratteggio del personaggio e il cuore della vicenda: Antigone è il racconto della costruzione di un’evasione. Sulla scena, è evasione del fratello dal carcere dopo che è stato arrestato; metaforicamente è quella di Antigone stessa dall’accettazione di un mondo che le chiede e le ha chiesto di rinunciare forse a troppe cose per sentirsi cittadina di un tutto. Così per salvare suo fratello dall’estradizione nel paese di origine, la protagonista sfrutta la loro somiglianza e decide di sostituirsi a lui in prigione prima del processo. E il processo diventa appunto il suo palco: il “non luogo” dove può mettere in scena la propria vita, chiedere giustizia e riscatto. Così il processo ad Antigone diventa metafora di solidarietà sociale, dei diritti dei più deboli, della difesa della famiglia rispetto alla legge, quando questa appare ingiusta. Qui il film cambia registro e inizia a collocarsi in un presente che si lancia verso il futuro: le scelte stilistiche della regista iniziano a valorizzare davvero un materiale narrativo che può sembrare scontato e poco originale. La solidarietà da parte dei compagni della protagonista, attraverso murales, post sui social, flash mob, video su YouTube, sit-in, azioni di disturbo all’interno e fuori dei palazzi di giustizia, regalano intensità e freschezza alla narrazione, che abbandona gli aspetti più classicheggianti e didascalici e procede a colpi di smartphone. La scelta di portare avanti il discorso filmico avvalendosi dei social media fa fare un testacoda al senso stesso della tragedia: Antigone assiste prima alla gogna mediatica e alla mistificazione della realtà delle sue vicende e dei suoi fratelli; ma, dopo il primo processo, al loro trasformarsi in strumento di salvezza arma rivoluzionaria. Il film, pur non privo di difetti, si fa però portavoce di un certo cinema moderno e “instant” che dimostra il suo valore artistico e la sua capacità di rappresentare non solo l’oggi ma anche l’adesso, ed è un abbraccio di incoraggiamento a tanti giovani lottatori del web che sposano cause importanti, dandoci grandi lezioni di umanità.