A febbraio, al Festival di Berlino, Casey Affleck presentava il suo secondo film da regista (dove scrive, produce e interpreta oltre che dirigere) dopo l’esordio avvenuto nel 2010 con I’m still here. Quello però, più che un lungometraggio inteso come “film di finzione”, era un mokumentary sulla vita di Joaquin Phoenix: i due si sono conosciuti nel lontano 1995 sul set di Da Morire di Gus Van Sant e sono diventati grandi amici. Affleck ha persino sposato nel 2006 la sorella di Phoenix, Summer. Light of my life, sua opera seconda, è invece un film di fantascienza post-apocalittico. Nonostante quello che l’etichetta di questo sottogenere possa far pensare, non ci sono messe in scena spettacolari e caciarone e l’umanità non è stata spazzata via da astronavi aliene né da epidemie che resuscitano i morti. L’approccio adottato da Affleck è molto più intimista e riflessivo, al punto che la principale minaccia per la sopravvivenza è l’umanità stessa (o meglio, ciò che ne rimane): per tre quarti del film (che dura comunque 2 ore) sono solamente due attori a reggere l’intera scena sulle proprie spalle. Lo spunto alla base è simile a quello usato da P.D. James (e adattato da Alfonso Cuaròn) ne I figli degli uomini: lì le donne avevano perso la propria fertilità e da 18 anni non nascevano più bambini, qui uno strano virus ha colpito il genere femminile, sterminandolo in pochi mesi. In entrambi i casi le donne sono le vittime primarie, quelle che nell’immediato pagano lo scotto incassando il colpo più duro. Ne consegue un limbo di tempo nel quale il genere umano dovrà prendere coscienza che si sta avviando verso l’estinzione senza alcuna possibilità di salvarsi. In questo mondo spopolato si muovono i due protagonisti: il padre Casey Affleck che cerca in ogni modo di salvaguardare la propria figlia, la bravissima Anna Pniowsky, camuffandola da ragazzo. La loro è una fuga attraverso boschi e luoghi desolati, dormendo in tenda, sopravvivendo con poco, restando sempre in guardia, muovendosi verso una direzione che non è chiara. Lungo tutta la prima parte viene costruito davanti agli occhi dello spettatore questo bellissimo rapporto di padre/figlia, che a tratti si contrappone a quello mostratoci in The Road (a cui Light of my life deve tantissimo!). Al contrario del film tratto da McCarthy però, Casey Affleck preferisce le parole ai lunghi silenzi e riempie le scene con lunghissimi dialoghi, aneddoti, storie inventate e impacciate spiegazioni che il padre deve dare alla figlia quasi adolescente. In questo senso è bellissima (soprattutto perché è anche un grande monologo perfettamente recitato da Affleck) la scena che apre il film, che a fine visione altro non apparirà come uno specchio della nostra storia. Nella seconda parte (senza fare spoiler, quella ambientata a casa della nonna) viene invece costruita, attraverso piccoli gesti e pochi dettagli, una tensione impalpabile, eppure in costante crescita. Qui Casey Affleck dimostra di saper utilizzare bene i tempi e gli spazi angusti di un’abitazione, andando a costruire un senso di claustrofobia molto simile a quello di It comes at Night. Ovvio, il parallelismo va preso con le dovute cautele, dato che lì il conesto era molto più soffocante e orrorrifico, ma la citazione pare quasi dovuta. Un’ultima precisazione: con tutti i rimandi evidenziati, potrebbe sembrare che Light of my life sia un prodotto molto derivato... ma non è così. In un sottogenere così stringente è ovvio che molte situazioni abbiano il sapore di “già visto”, ma è solo contorno. Il vero cuore emotivo del film risiede tutto nel rapporto padre e figlia che viene costruito con pazienza e perizia di dettagli, anche grazie ai (pochi) flashback che mostrano la madre/compagna di Affleck. Per questo motivo il film è un’ottima prova di scrittura, regia e recitazione dell’attore. Ora non ci resta che aspettare con curiosità il suo prossimo progetto.