El Hoyo, il primo spiazzate lungometraggio del regista basco Galder Gatzelu-Urrutia, presentato in concorso al 37° Torino Film Festival, è ambientato in una realtà distopica all’interno di un carcere avente una struttura verticale che consta di 333 livelli. Ogni piano, che ospita due prigionieri, possiede un foro quadrato centrale all’interno del quale scorre due volte al giorno una piattaforma sulla quale vengono poste ogni sorta di leccornie delle quali i prigionieri potranno cibarsi nei due minuti in cui stazionerà al loro livello, prima di scendere in quello sottostante. A loro sarà severamente vietato trattenere anche un solo tozzo di pane nel momento in cui la piattaforma lascerà il piano, pena il repentino aumento della temperatura della cella che li porterà a soffocamento o, al contrario, un brusco calo della stessa, che li congelerà. Gli ospiti della prigione che abitano i livelli superiori potranno mangiare sino a sazietà nel tempo concesso, mentre, a mano a mano che la piattaforma scende di livello, resteranno a disposizione dei prigionieri solo gli avanzi e infine un cumulo di inutili stoviglie vuote. Alla fine di ogni mese di permanenza in un determinato livello, un gas soporifero viene sprigionato all’interno del carcere e i detenuti si addormenteranno per poi risvegliarsi a un livello diverso da quello in cui si trovavano, senza però sapere a quale piano si sveglieranno: se saranno fortunati si ritroveranno a un piano alto, altrimenti si risveglieranno a un livello basso e saranno costretti a patire la fame per il tempo in cui dovranno soggiornarvi. Inoltre, al momento dell’incarcerazione, ai prigionieri è concesso di portare con sé un solo oggetto personale a loro scelta. Gatzelo-Urrutia decide di seguire in particolare due prigionieri: Goreng (Ivan Massagué) e Trimagasi (Zorion Eguileor), che si ritrovano a condividere per un certo periodo di tempo lo stesso livello. Goreng è appena arrivato nella prigione e non conosce ancora i meccanismi che ne regolano la vita. Si è fatto rinchiudere volontariamente per sei mesi in cambio del rilascio, una volta terminata la reclusione, di un titolo che gli permetterà di avanzare nella scala sociale. Come oggetto da portarsi appresso al momento del suo internamento ha scelto il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, al contrario del suo compagno di cella che ha deciso di portarsi un affilato coltellaccio da cucina. Il film del regista basco è una stupefacente e chiara metafora di una società strutturata in classi e dei rapporti di forza fra i potenti della Terra e gli ultimi del pianeta. L’indice di ricchezza viene valutato in base alla quantità di cibo che arriva quotidianamente a ciascun livello della fossa. Gli abitanti dei piani alti mangeranno più della quantità loro necessaria per vivere, mentre coloro che vivono agli inferi non avranno altra scelta se non divorarsi - in questo caso non solo metaforicamente – fra loro. Si tratta di un incubo infernale e, significativamente, i livelli della prigione sono 333: essendoci due abitanti per piano il numero complessivo di ospiti è pari a 666, chiaro riferimento al numero satanico che compare in un passo dell’Apocalisse di Giovanni). Non c’è speranza all’interno della fossa perché al suo interno è impensabile che chi ha di più voglia cedere parte del suo cibo a beneficio dei più poveri. Un gesto simile sarebbe rivoluzionario ma si sa, le rivoluzioni hanno bisogno di consenso e partecipazione. El Hoyo è un film claustrofobico, soffocante, che mette in guardia l’uomo da un inarrestabile processo di estinzione. Costruito in maniera esemplare grazie alla scrittura di David Desola e Pedro Rivero, con una bella e pertinente colonna sonora di Aránzazu Calleja, incredibilmente non ha ottenuto alcun riconoscimento ufficiale da parte della giuria del Festival, se non un premio collaterale per la miglior sceneggiatura. Netflix ha acquisito i diritti per la distribuzione internazionale del film, ma speriamo di poterlo vedere anche sul grande schermo di una sala cinematografica.