Con Sorry We Missed You, Ken Loach aggiunge un altro tassello alla sua opera di denuncia della nostra società contemporanea e delle nuove forme di sfruttamento lavorativo, con la cancellazione dei diritti conquistati in un secolo di lotte operaie. È il caso della cosiddetta “gig economy”, quel modello basato sul lavoro digitalizzato e parcellizzato, affidato a lavoratori ufficialmente autonomi ma gestito da piattaforme con formule di organizzazione spesso simili a quelle del lavoro dipendente. Un lavoro caratterizzato da un elevato grado di precarietà e che impone spesso ai lavoratori ritmi incalzanti e insostenibili. Come nel precedente Io, Daniel Blake, anche Sorry We Missed You è ambientato a Newcastle, città nella quale vivono il protagonista Ricky Turner (Kris Hitchen), sua moglie Abby (Debbie Honeywood) e i loro due figli: l’adolescente Seb (Rhys Stone) e l’undicenne Liza Jane (Katie Proctor). Ricky, strangolato dai debiti dopo il crollo delle banche e degli istituti di credito immobiliare, decide di acquistare con grandi sacrifici un furgone mettendosi al servizio, come lavoratore autonomo, di una ditta in franchising. Dovrà recapitare agli acquirenti i prodotti ordinati on line e più ne consegnerà nel corso della giornata, più certezze avrà di mantenere il posto. Abby, dal canto suo, fa l’assistente domiciliare a numerose persone anziane o disabili. Sono entrambi lavori duri che li sfiancano, costringendoli a turni lunghi e massacranti che gli faranno perdere, a poco a poco, il controllo della loro, seppur forte, unità familiare. Ken Loach, con il passare degli anni, ci ha abituato a film sempre più ruvidi e crudi, dove il messaggio di denuncia è esplicito e viene lanciato senza troppi giri di parole. Sceneggiato insieme al suo storico collaboratore Paul Laverty (con il quale ha instaurato un sodalizio ormai ultraventennale che dura sin dai tempi de La canzone di Carla), Sorry We Missed You è un film che pone l’attenzione dello spettatore su alcuni temi ben precisi. In particolare quello dell’utilizzo della tecnologia. Se lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo è sempre lo stesso, quello che cambia è il mezzo con il quale tale sfruttamento viene perseguito. L’utilizzo di tecnologie sempre più sofisticate finisce per ritorcersi contro il lavoratore e, anziché sollevarlo in parte dalla fatica, lo riduce al livello di uno schiavo. Nel caso specifico, il vero problema di Ricky è il palmare che è obbligato a portarsi sempre appresso e che gli detta, inesorabile, i tempi di lavoro e consente inoltre al suo responsabile e al cliente, di sapere sempre dove si trovano l’uomo e il pacco da consegnare. Sotto questo punto di vista non c’è differenza fra l’uomo e la merce. Ricky dovrà correre da una parte all’altra della città per rispettare i tempi delle consegne non potendosi permettere ritardi, soprattutto laddove è stata pagata una cifra supplementare per la consegna prioritaria. Ogni minimo ritardo, ogni ora di assenza anche se giustificata, ricadrà su di lui sotto forma di penali da pagare o, nel caso peggiore, della revoca dell’incarico. Ricky non potrà concedersi neppure una sosta in un bar per espletare i propri bisogni fisiologici, ma sarà obbligato a orinare dentro una bottiglia per non perdere tempo prezioso. Loach e Laverty sono molto bravi a mettere in scena questo spaccato di società dove a trionfare è la totale disumanizzazione del lavoro. Che nel caso di Ricky è scandito dal “bip” inesorabile del palmare che lo avverte dei ritardi e dei tempi morti. I due analizzano, con il solito loro linguaggio sempre molto scorrevole, come questo imbarbarimento porti a gravi ripercussioni anche a livello familiare. Il legame di Ricky e Abby è molto forte: fra i due c’è grande intesa e Ricky è un padre e un marito affettuoso. Ma il protrarsi delle ore dedicate al lavoro da parte sua e di Abby, porterà lentamente a uno sfaldamento del loro rapporto e di quello con i figli, soprattutto con Seb, del quale i genitori non sono più in grado di comprenderne le potenzialità ma ne percepiscono solamente l’indolenza nei confronti dell’istituzione scolastica. Tuttavia l’impossibilità a ridurre il ritmo lavorativo, pena la perdita dell’impiego, rischierà di condurli a uno stato di non ritorno. Osservare i volti dei personaggi sempre così credibili, i primi piani, la loro normalità, rende partecipi della sofferenza e dello smarrimento che stanno vivendo. E fa capire ancora una volta – come se ce ne fosse bisogno – la grande capacità di Ken Loach nel dar voce al proletariato, a quella working class sfruttata che dalla vita non chiede altro se non di poter vivere dignitosamente. Quella dignità della quale è stata derubata da un sistema oppressivo e lesivo di ogni diritto, e che gli viene restituita, almeno sullo schermo, dalla solidarietà e dall’umanità di questo grande regista che, all’età di ottantatré anni, è ancora capace di indignarsi e di farci indignare.