La bambola assassina fece il suo arrivo nei cinema americani nel novembre del 1988 (in Italia nel giugno successivo) e portò a casa 45 milioni di dollari a fronte di un budget di 9. Insomma, come la maggior parte degli horror (specialemente quelli che poi negli anni sono diventati saghe di successo), il margine di profitto c’era. Così come la voglia del pubblico di vedere ancora Chucky sul grande schermo. Un sequel era d’obbligo: arrivo al cinema due anni più tardi, nel novembre del 1990. Come prima cosa c’era però d’affronatre la questione di come riportare in vita Chucky. Non un problema da poco, dato che alla fine del primo film il bambolotto viene bruciato e reso irriconoscibile. Da qui il colpo di genio: la scena iniziale ambientata all’interno della gigantesca fabbrica di Tipo Bello, dove migliaia di altri bambolotti identici a Chucky sono imballati nelle loro scatole gialle pronte a essere venduti. Torna a farsi sentire (prepotente) la critica al consumismo di Don Mancini - che firma la sceneggiatura anche di questo sequel - che era l’idea originale del primo film, poi ammorbidita in favore di slasher più classico. La casa produttrice del giocattolo è terribilmente preoccupata per la cattiva pubblicità e le ripercussioni che potrebbe avere sulle vendite. Recuperati i resti carbonizzati del bambolotto, si decide così di rimetterlo in sesto in una sequenza che sembra uscita da Terminator e che fa da sfondo ai titoli di testa del film. Problema risolto! Ora Chucky è di nuovo intero e pronto a vendicarsi di Andy Barclay. Il bambino, nel frattempo, è stato tolto alla madre (sotto cure psichiatriche) e messo in un istituto in attesa di una famiglia che lo adotti: i coniugi Simpson sembrano le persone ideali. Chucky però tornerà a perseguitarlo. Pur non aggiungendo nulla di nuovo a quanto già visto nel primo film, questo sequel ha il merito di definire maggiormente il carattere di Chucky. A tutti gli effetti, in questa pellicola viene plasmato il carattere del bambolotto, equilibrando quel mix di tagliente ironia e spietati istinti omicidi che lo hanno consacrato a icona horror. Nella versione originale Brad Dourif torna a dar voce al personaggio, lavorando di fino, specialmente sulla risata malefica che diverrà uno dei suoi tratti distintivi. Ma il vero punto di forza è nell’animazione della bambola, ancora una volta impeccabile. Movimenti, espressioni, mimica facciale, tutto viene reso sullo schermo grazie a una serie di metodi vecchia scuola che risultano ancora oggi più che efficaci. La scena finale, l’inseguimento all’interno della catena di montaggio dei Tipo Bello è un tripudio di colori e inventiva che fa risaltare un’altra caratteristica della saga: al contrario di come succede spesso negli horror, in cui i mostri si nascondono nell’ombra (un po’ per creare tensione, un po’ per mascherare dei trucchi che con una fotografia più chiara risulterebbero troppo “gommosi”), con Chucky questo pericolo non c’è... essendo lui stesso una bambola di gomma!Tutta la scena finale è mostrata con chiarezza, usando colori pastello che arrivano a rievocare la pop-art e accentuano ancor di più la critica alla nostra società consumistica teorizzata da Mancini. A tutti gli effetti questo dittico de La bambola assassina può essere visto quasi come un unico film (un po’ quello che aveva fatto John Carpenter con i primi due Halloween) sia per le tematiche trattate sia per gli archi narrativi dei due personaggi principali. Esisteva però un finale alternativo, trasmesso anche in televisione, che lasciava intravedere la possibilità di un terzo film (un pezzo della testa di Chucky cade in una vicina vasca di plastica fusa e i macchinari danno vita a una nuova bambola) cosa che effettivamente si realizzerà l’anno successivo, aprendosi proprio con una sequenza molto simile.