Mario Martone, a un anno di distanza da Capri Revolution torna alla Mostra di Venezia, e lo fa in grande stile, portando un’opera che lui stesso aveva proposto in teatro, adattandola al grande schermo. Stiamo parlando de Il sindaco del Rione Sanità, una delle pièce teatrali più interessanti di Eduardo De Filippo. Martone porta l’opera in concorso al Lido con un’operazione azzardata: la rivisitazione di alcune scene cruciali dell’opera originale. Don Antonio Barracano (Francesco Di Leva) è il boss del Rione Sanità. Ogni controversia viene portata al suo cospetto e lui risolve ogni cosa in prima persona, proteggendo chi non è in grado di difendersi da solo. Con il supporto di un amico medico è arbitro della giustizia coi suoi personali parametri, che esulano da ogni legge dello Stato. A lui, si rivolgono tutti coloro che non hanno santi in Paradiso. Un giorno, alla sua attenzione viene portato anche il caso di Rafiluccio Santaniello (Salvatore Presutto), giovane assetato di vendetta nei confronti del padre Arturo (Massimiliano Gallo). Don Antonio, immedesimandosi in questo giovane pieno di rabbia, che gli risveglia un forte senso di colpa per un atto efferato di cui si era macchiato in gioventù, decide di intervenire personalmente per evitare ulteriore dolore e spargimento di sangue, pagando un prezzo molto alto.
Dopo un inizio un po' pericolosamente “Gomorra-style”, che fortunatamente si annacqua nelle scene successive, questo nuovo lavoro di Mario Martone conferma l’abilità del regista nel maneggiare la materia teatrale. Modificare l’originale di De Filippo non sembrava una grande scelta, ma invece l’intervento - seppur rischioso - gli ha permesso di modernizzare il testo, rendendolo sofisticato e pop al contempo. Il confronto con il Maestro è però inevitabile, almeno per chi conosce l’opera, sebbene il risultato finale di Martone sia un film non in conflitto, quanto in armonia e complementarietà con l’originale. Come se il lavoro di attualizzazione volesse dimostrare la contemporaneità di alcune situazioni e di alcuni personaggi, rendendoli universali.
La ricerca di contemporaneità traspare già nella scelta del protagonista, un don Antonio giovanissimo che nulla ha a che vedere con il protagonista dell’opera originale. Se da un lato questa scelta anagrafica è coerente e comprensibile, dall’altro è proprio il personaggio principale a non convincere fino in fondo, come se non avesse la maturità necessaria per il carico emotivo che gli affida la regia in questa pellicola. Il sindaco del Rione Sanità messo in scena da Mario Martone si differenzia da quello descritto da Eduardo De Filippo nella sua pièce del 1960 per il desiderio di fissare un’età alla criminalità organizzata napoletana: la considera figlia di una generazione di sbandati sanguinari che non può far altro che utilizzare quella grammatica, pur non avendola mai scelta.
Il regista costringe l’opera a muoversi in spazi angusti, comprimendone molti particolari in una sintesi necessaria all’adattamento cinematografico. Questa sintesi rende in alcuni passaggi non fluidissimo il racconto, e poco significanti alcuni elementi narrativi che sembrano forzati, come la scena del ritorno di donna Armida morsa dal cane. Ma le differenze vere e proprie esplodono sul finale: è lì che la scelta di sacrificare la verità sull’altare della pace è rafforzativa di un’idea sul mondo contemporaneo che poi molte speranze non ha. In questa riscrittura è come se si volesse ribadire un certo immobilismo, una dimensione favolistica fatta di archetipi e ruoli che possono essere attribuiti a personaggi diversi ma che non cambiano nelle dinamiche di interazione. Nemmeno quando, sul finale, si arriva al sacrificio definitivo, sotto l’obbedienza di tutti.