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Departures

13/04/2010 10:00

Marco Papaleo

Recensione Film,

Departures

Chi è avvezzo alla filmografia orientale sa che la ritualità è un elemento basilare della cultura dell'estremo oriente: l'estetica e il rito sono sempre parte i

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Chi è avvezzo alla filmografia orientale sa che la ritualità è un elemento basilare della cultura dell'estremo oriente: l'estetica e il rito sono sempre parte integrante dell'insieme, anche nei film d'azione e arti marziali. Così come la cura, la maestria e la delicatezza, sempre infuse in ogni branca delle attività quotidiane e dei mestieri, oltre che delle pratiche religiose. Nel 2008, il regista giapponese Y?jir? Takita (ben conosciuto in patria ma non particolarmente amato all'estero per via di pellicole mediocri e piuttosto indigeste per il pubblico occidentale come Onmyoji – The Ying/Yang Master) propone il suo Okuribito, ispirato vagamente al libro autobiografico N?kanfu Nikki di Aoki Shinmon e grande successo in patria, tanto da venire incluso nella rosa dei film in lizza per l'Oscar al miglior Film Straniero del 2009, riuscendo infine ad accaparrarsi l'ambita statuetta. Vincendo la consueta ritrosia del pubblico italiano verso i film orientali, la Tucker Film riesce ora, per fortuna, a recuperare questo film, presentato nel nostro mercato col titolo internazionale: Departures.


La recessione ha colpito anche il Giappone, e molte imprese chiudono. Tra queste, cessa le attività anche l'orchestra presso la quale suona Daigo Kobayashi (Masahiro Motoki), mediocre violoncellista che vede così infrangersi il suo sogno musicale. Insieme alla novella sposa Mika (Ryoko Hirosue), decide di trasferirsi dalla dispendiosa Tokyo alla più tranquilla ed economica regione natale, Yamagata, dove ha ereditato una casa e dove comincerà la ricerca di un nuovo lavoro. A causa di un equivoco, si ritrova ad accettare un incarico come assistente tanatoesteta presso l'agenzia del signor Sasaki (Tsutomu Yamazaki), cominciando un lungo e particolare viaggio personale e professionale in un settore, quello mortuario, che non conosce mai la crisi, ma in cui, inaspettatamente, il calore umano è il requisito principale.


L'argomento della pellicola di Takita è sicuramente delicato e rischioso da trattare in un film che potrebbe risultare potenzialmente noioso o irriverente. E invece, con un guizzo registico (e anche poetico, ci azzarderemmo a dire) inaspettato, il regista nipponico confeziona una vicenda che col suo humor nero riesce spesso a far sorridere, ma ancor più spesso a commuovere, grazie ad alcune sequenze (fra tutte quella finale) realizzate con rara maestria e tatto. Lodevoli le interpretazioni dei protagonisti - fra tutti l'eccellente Motoki e la deliziosa Hirosue, che il pubblico occidentale già conosce come figlia di Jean Reno nel divertente Wasabi di Besson - e incantevoli le musiche di Joe Hisaishi (compositore di fiducia, tra gli altri, di Kitano e Miyazaki). Ma è proprio la delicatezza della sceneggiatura di Kundo Koyama e dello stesso Takita a catturare le corde dell'anima: una storia che intona, in risonanza alle vicende di Daigo, melodie di morte e rinascita comuni a tutti gli esseri viventi. Oltretutto, gli amanti della cultura orientale, e giapponese in particolare, ben sanno quanto l'argomento e la professione in questione siano stati a lungo un tabù, in quanto ritenuta impura come tutti i lavori a stretto contatto con esseri - non più – viventi. E tutt'ora persistono pregiudizi al riguardo ben radicati e altrettanto ben rappresentati nell'opera, in maniera sottilmente denunciatrice di una dignità professionale altrimenti rara da trovare. Se non vi spaventano i film emozionali, Departures è una visione obbligata.


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