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Il tempo dei cavalli ubriachi

14/04/2010 11:00

Silvia Badon

Recensione Film,

Il tempo dei cavalli ubriachi

«Sono nato e cresciuto in una piccola città della regione curda dell’Iran...

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«Sono nato e cresciuto in una piccola città della regione curda dell’Iran. La mia infanzia e i miei ricordi di adolescente in Kurdistan sono stati una grande fonte di ispirazione per il mio film. ‘Cavalli ubriachi’ è il mio primo lungometraggio, e uno dei primi film-verità girato in curdo. Ho realizzato questa opera come umile tributo alla mia cultura heri». Con queste parole Bahman Ghobadi apre il suo primo film, girato in una terra di confine tra Iran, Iraq, Turchia e Siria, dove, un gruppo etnico di milioni di persone, vive in una condizione di minoranza. Il confine non è solo condizione di esistenza, ma un passo invalicabile, una montagna da attraversare: al di là c’è l’Iraq, le imboscate e i proiettili di chi non vuole permettere quell’attraversamento ai curdi dell’Iran che, con i loro muli carichi di merci, cercano mercati più vantaggiosi.


Questa è la condizione in cui si trovano i tre piccoli protagonisti, che non è solo una grande avventura esistenziale, ma un documento importante che testimonia la vita nei villaggi della regione. Dopo la morte del padre, Ayoub (Ayoub Ahmadi), un ragazzino di dodici anni, diventa il nuovo capofamiglia, perciò deve preoccuparsi di trovare un lavoro e mettere da parte una bella somma di denaro per far operare Madi (Madi Ekhtiar-dini), il fratello quindicenne, rimasto bambino a causa di una grave malattia. A prendersi cura di Madi ci sono anche le due sorelle: una (Rojin Younessi) accetta un matrimonio combinato con uno sposo iracheno nella speranza di portare con sé Madi e farlo operare; la più piccola (Amaneh Ekhtiar-dini), invece, vorrebbe continuare a studiare. Ayoub entra nel mondo degli adulti, si unisce alle carovane di commercianti che ogni giorno tentano di attraversare il confine, nonostante le mine e i posti di blocco; quelli che possiedono un mulo riescono a trasportare numerose merci, da vendere poi in Iraq, ma, per i ragazzini come lui, c’è solo la propria resistenza fisica, con un pesante carico legato sulle spalle e una ripida salita davanti. In un contesto sociale in cui i bambini sono costretti a lavori massacranti e le cure mediche sono molto limitate, un portatore di handicap come Madi è completamente escluso dalla vita lavorativa, scolastica, senza alcuna forma assistenziale; così, dipendente solo dalle cure dei familiari, il ragazzo diventa un peso, l’ennesima bocca da sfamare trasferita di famiglia in famiglia.


Il film, con le sue storie semplici, non mira solo a denunciare la situazione del popolo curdo, ma riesce a mantenere uno sguardo “all’altezza” dei piccoli protagonisti, mostrando anche i momenti della loro vita quotidiana, come la scuola, i compiti, il lavoro e il rapporto con i coetanei. Particolarmente interessante è il tema del confine, che Ghobadi ha scelto di rappresentare attraverso un valico montagnoso, al di là del quale aspetta un nemico silente e nascosto, invisibile e non identificabile per lo spettatore. Giungono gli spari, esplodono le mine, ma gli assassini non mostrano mai il proprio volto, la paura e il pericolo per i commercianti curdi è nell’aria e nei proiettili. Bahman Ghobadi, nelle parole d’apertura, dichiara di non aver creato personaggi inventati, i suoi protagonisti sono tratti dalla vita reale (rispettando i canoni del film-verità), la stessa che il regista ha conosciuto, nato nel 1969 in una città iraniana della regione curda. Solo nel 1992, dopo la maturità, Bahman è riuscito a trasferirsi a Teheran per continuare gli studi; dalla metà degli anni ’90, i suoi primi cortometraggi hanno cominciato ad ottenere riconoscimenti in patria e all’estero, in particolare Life in fog, documentario del 1999. Il suo primo lungometraggio Il tempo dei cavalli ubriachi gli conferisce definitivamente una fama internazionale, con ben 10 premi, tra cui il Golden Camera a Cannes.


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