nottuB nimajneB id osac osoiruc lI. Ovvero: la vita a ritroso. Tic. Tac. Il tempo soffia incessantemente sulle nostre vite. Impassibili ne rimaniamo in balia, immobili, dinanzi a una presenza che tutto avvolge e travolge. Ogni azione, ogni decisione viene sommersa dall’inesorabile fluire di un’ordinata causalità. Tutto diviene schiavo del divenire, del presente, di uno schema dettato da Chronos, imperturbabile tiranno delle nostre anime. Questo è il mondo reale. Tuttavia dalla realtà ci si può allontanare e fluttuare mentalmente fra le nuvole create dalla fantasia, abbandonando questa dimensione satura di regole impossibili da violare. Nel mondo cinematografico ogni volo della mente ha la possibilità di sfuggire dalle catene terrestri e prendere forma. Ed ecco giungere David Fincher. La sua chiave apre un rigoglioso giardino in un inedito mondo dalle tonalità seppia. Il tempo si ferma, le lancette mutano il loro abituale movimento. E una splendida anarchia pervade l’umana esistenza, mescolando le carte del percorso vitale. Si stravolge l’ordine naturale e nel cammino di Benjamin Button tutto inizia come dovrebbe finire.
Così fantasticava Mark Twain, la cui surreale trovata fu ripresa in un racconto da Francis Scott Fitzgerald, scrittore della “Generazione Perduta”. In una strana girandola di idee, il progetto cinematografico, ispirato alla novella dello scrittore “jazz”, passa negli anni da Ron Howard a Spike Jonze, arrivando infine nelle mani del terzetto Fincher, Roth e Swicord. È in una casa signorile di New Orleans che la storia ha inizio. In una notte di festeggiamenti per la fine del primo conflitto mondiale una donna partorisce un figlio dalle sembianze ottuagenarie. L’aspetto non è ingannevole, il neonato possiede un particolare gene: nato vecchio, con il trascorrere del tempo ringiovanisce. Il destino di Benjamin si intreccia con quello di Daisy, deliziosa ballerina dalla sopraffina grazia. In un concatenarsi di eventi, le esistenze dei protagonisti danzano sulle note intonate dal fato; si sfiorano, si allontanano, si incontrano a metà della vita, mentre l’una si incammina verso la maturità e la vecchiaia e l’altro si dirige in direzione opposta, verso l’adolescenza.
Le meravigliose musiche di Alexandre Desplat e la soave fotografia di Claudio Miranda sublimano il ritmico scandire delle stagioni di Benjamin, osservate da un occhio quasi invisibile capace di dirigere con un candore stilistico d’altri tempi. L’impeccabile stile narrativo appare un ideale punto d’incontro tra lo Zemeckis di Forrest Gump (di cui Rothfu sceneggiatore) e il tocco di Tim Burton, per la maestria di esporre sul grande schermo storie catturate dalla dimensione fantastico-fiabesca. Lo spirito che aveva contraddistinto il personaggio interpretato da Tom Hanks rivive in Benjamin, i cui sogni e desideri si sporgono al di là delle proprie incapacità fisiche, superando barriere ai suoi occhi invisibili. L’esperienza visiva viene sublimata dalla presenza scenica dei due impossibili amanti, perfetti nelle loro mutevoli sembianze. Brad Pitt è straordinario nel donare, negli sguardi e nelle espressioni, un tocco di pura innocenza infantile, contrapposta al corpo avvizzito dalla senilità. Mastodontico in questo il lavoro svolto dalla Digital Domain, i cui effetti speciali, coadiuvati dal make-up di Gregg Cannom, sono così impeccabili da far sì che tutto sembri il più realistico possibile e che niente risulti snaturato nelle mimiche facciali o nei movimenti. Il tempo scorre con il suo pesante incedere. L’esistenza diventa ineffabile, caduca. Eppure il fuoco vitale arde con rabbiosa potenza. E per un attimo quell’incessante ticchettio si ferma.