Chi l’avrebbe detto che a quasi settant’anni dal suo acquisto, effettuato da Howard Hughes nel lontano 1940 per costruirvi una villa per la allora compagna Ginger Rogers, la collina più celebre del mondo, e con essa quel “Hollywood Sign” simbolo del cinema americano, proprio come una celebrità in declino costretta ad abbandonare la sfarzosa vista panoramica su Los Angeles, avrebbe rischiato lo sfratto dalla sua lussuosa residenza? E se, andando oltre la cronaca d’attualità, immaginassimo davvero una Hollywood sotto ingiunzione, costretta a trovare nuova sistemazione alla sua decennale fama, potrebbe trovare un altro posto in grado di offrire risalto e magnitudine degni di tale splendore? La risposta avrebbe un solo nome e una collocazione, che spicca lungo le vie italiche affacciate alla memoria di un passato non troppo lontano, che da Piazza della Repubblica giungono come un flusso d’acqua spumosa alla pregnanza mnemonica della Fontana di Trevi, e da lì nei ricordi in bianco e nero delle vetrine di Via Veneto, testimoni di un ventennio in cui Hollywood era solita prendere casa sul Tevere. Marco Spagnoli, giornalista ed esperto cinematografico sempre sensibile alle realtà peninsulari (negli ultimi anni è stato vicedirettore del Festival di Taormina e del RomaFictionFest, oltre che membro dell’Accademia del David di Donatello), dagli archivi Luce scopre, con gli occhi di un bambino che dissotterra un antico relitto piratesco, e recupera, con perizia e sapienza proprie del critico, materiali che sembravano perduti nell’oblio polveroso del tempo. La ricchezza di questo giacimento di memorie, fatto di vivide immagini di repertorio, tutte relative al ventennio che dal 1950 si allunga al 1970, offre il ricordo degli anni in cui il cinema italiano, alla deriva dopo l’avvento del fascismo, divenne «l’epicentro di una industria cinematografica sana e dalle notevoli potenzialità commerciali e produttive». Se da una parte, infatti, l’Italia ricostruiva la propria identità dando alla luce i capolavori neorealisti di De Sica e Rossellini, dall’altra, si trovò ad ospitare – previi accordi di co-produzione con le nazione straniere – un’ondata di produzioni hollywoodiane che, da parte loro, vedevano nel basso costo delle realizzazioni, nella qualità proverbiale dei tecnici, nelle straordinarie location naturali e nella bella vita della capitale, l’occasione di investimenti fruttuosi sul suolo italico. Cinecittà diventò in pochi anni il crogiuolo di operazioni titaniche che avrebbero segnato la storia del cinema (si pensi al colossal Ben Hur che con i suoi 11 oscar e gli incassi da capogiro salvò la MGM dalla bancarotta, o ai 20 miliardi di dollari spesi per Cleopatra), e il centro di Roma il luogo di passaggio, lavorativo o vacanziero, delle star americane, accolte sempre dall’ospitalità trionfale dei sognanti spettatori italiani (come quella riservata a Louis Armstrong e a Charlie Chaplin), o dagli irriverenti teleobiettivi dei paparazzi. Un crocevia temporale che vide il fiorire di manifestazioni culturali, premi, eventi (Festival di Venezia e David di Donatello), di anteprime ricche di parterre eccezionali (in quegli si scopre l’importanza della promozione e il ruolo degli uffici stampa), come pure di storie d’amore che talvolta valicavano i confini dello schermo, per l’appagamento dei cronachisti rosa e dei rotocalchi (le immagini di Humphrey Bogart e la Bacall, o il matrimonio romano di Tyrone Power con Linda Christian). Spagnoli si lascia guidare – e noi con lui – dal fascino intramontabile di questo effervescente carosello ventennale, e lo fa senza che i toni nostalgici, per un periodo così pieno di vita, prendano il sopravvento. Il montaggio di Patrizia Penzo e le musiche di Plivio e Aldo De Scalzi, rendono, piuttosto, il documentario un susseguirsi di reperti dal valore ineguagliabile rinfrescati da una sensibilità moderna e, potremmo dire, una verve sensuale e glamour. Trasportato dalla squisita voce narrante di Daniela Cavallini (e dai testi dello stesso Spagnoli) che si alterna, nel racconto, con quella meravigliosamente caustica dei cinegiornali dell’epoca (irresistibili le sferzate corrosive dei cronisti ai vari Steve Reeves e Clark Gable), Hollywood sul Tevere rimane, oltre alla passione cinefila dei suoi realizzatori, un ineludibile bagaglio culturale che racconta una favola d’oro di altri tempi, fulgida e indimenticabile.