Ho-Tep: antenato e discendente della diciassettesima dinastia, nome famigliare di un faraone egiziano. Bubba: nomignolo per indicare un uomo del sud degli Stati Uniti. In questa semplice analisi del titolo vi è racchiusa tutta l’essenza del film, come fosse un sacro canopio bramoso di aprirsi e liberare la maledizione che vi è custodita all’interno. A scanso di equivoci, però, chiariamo subito una cosa: Bubba Ho-Tep non è un film horror; o almeno non nel senso classico del termine. È una mescolanza di generi non etichettabile, un cocktail di elementi che spaziano dalla commedia nera alla satira, dall’horror sino a sfiorare le corde del melodramma esistenziale, il tutto confezionato sotto le spoglie di un B-movie in puro stile anni ’70. Ma forse nemmeno questa definizione è del tutto veritiera dal momento che le premesse del film sono tutt’altro che scontate. Mud Creek, Texas. L’ospizio “Riposo ombroso” è un posto tranquillo, dove le giornate si trascinano lente e vuote, la morte è un assidua frequentatrice e le visite dei parenti sono un evento più unico che raro. Tra i pazienti che affollano la casa di riposo, spiccano due figure illustri che hanno decisamente conosciuto tempi migliori: Elvis Presley e John Fitzgerald Kennedy. Il primo, ritiratosi lì per sfuggire alle schiere di fan, alcolizzato e imbolsito, con vistosi problemi deambulatori, ha ingaggiato un’aspra lotta contro un cancro ai testicoli. L’altro, nero, con un sacchetto di sabbia alla nuca per compensare il vuoto lasciato dai proiettili di Dallas, è stato trasferito nell’ospizio dalla CIA per sua sicurezza personale. I due, ormai coscienti che i loro giorni su questa terra stanno per finire, si faranno forza a vicenda per combattere una mummia egiziana (quella del titolo) vestita da cowboy che di notte si aggira per i corridoi dell’ospizio a succhiare le anime dei vecchietti in modo da mantenersi in vita. Tutto, nel film, è grandioso, prova che non sono i soldi (la realizzazione della pellicola è scostata alla produzione solo un milione di dollari) a fare grande il cinema, ma le idee e la passione. Alla base vi è un ottimo materiale di partenza: la sceneggiatura infatti, è una trasposizione più che fedele dell’omonimo romanzo breve di Joe R. Lansdale, scrittore texano sconosciuto ai più ma ritenuto uno dei principali eredi e rivali di Stephen King. Bruce Campell non era così in forma dai tempi de La Casa e riesce a regalarci – magistralmente – l’affresco di un Elvis malinconico e patetico, capace allo stesso tempo di far commuovere i seguaci del re di Memphis, strapparci risate amare con le sue smorfie da cartone animato e darci importanti spunti di riflessione. Basti pensare a tutte le sequenze con il character-dolly sul faccione comico e appesantito di Campbell e la sua voce fuori campo che ci parlano delle ingiustizie della vita, l’infelicità nonostante i miliardi e la vecchiaia trascorsa dimenticato dal mondo. Ottima anche la prova di Ossie Davis nonostante il personaggio dell’ex-presidente rimanga troppo in secondo piano rispetto a quello di Elvis; i momenti in qui imperversa sullo schermo, però, sono esilaranti. Don Coscarelli (Phantasm, 1979) dirige un ottimo film, caratterizzato da personaggi sopra le righe e atmosfere dense di pathos, che trova forse proprio nel suo lato horror (sboccato e clownesco, degno dei migliori Raimi e Jackson) il punto più debole. L’affresco che fa della casa di riposo, così intriso di desolazione e malinconia, così asettico che quasi si sente l’odore della candeggina che impregna i corridoi, basterebbe da solo ad appagare lo spettatore della visione del film.