Leone d'Oro a Venezia nel 1961, L'anno scorso a Marienbad è il secondo lungometraggio di Alain Resnais, dopo l'esordio capolavoro di Hiroshima mon amour. Frutto di una collaborazione del regista francese con lo scrittore Robbe-Grillet, massimo esponente della corrente letteraria nouvelle roman, è l'unione tra due influenze artistiche (per Resnais, la nouvelle vague) diverse ma con dei punti in comune, che ha dato vita a un'opera ancora oggi spiazzante, fuori da ogni schema. Non è un'eresia dire che maestri moderni e autori di un cinema folle e personale come David Lynch e David Cronenberg vi si siano ispirati, e già questo potrebbe far capire la portata del film, a quasi cinquant'anni dalla sua uscita. Immergiamoci in questo sogno (o sarebbe meglio dire fascinoso incubo) cinematografico, un viaggio onirico dal potente magnetismo. In un sontuoso albergo un uomo e una donna si incontrano. Lei (Delphine Seyrig) è accompagnata dal marito (Sacha Pitoëff), mentre lui (Giorgio Albertazzi) cerca di ricordarle una vecchia promessa. L'anno prima, i due si erano promessi amore eterno e di partire insieme. In uno spazio che sembra muoversi, in cui i luoghi non hanno una stabilità fisica e il tempo pare scevro da vincoli temporali, incrociando il passato e il presente, l'uomo perseguita la vecchia amata, che sembra non rimembrare quanto accaduto dodici mesi prima, ma allo stesso tempo è inspiegabilmente attratta dal misterioso spasimante. Nel vasto residence, dalle apparenze di un'antica villa ottocentesca, i due protagonisti si muovono e si rincorrono, quasi senza meta, in una ricerca opposta di fuga e riconciliazione. Un percorso spiazzante, che disorienta la mente e i sensi, e in questa storia di un amore al limite, tormentato e incerto, si ampliano e si piegano su se stessi, in un gioco senza dubbio visivo, ma che fa delle emozioni il suo centro scatenante. Inquadrature virtuose, che modificano lo spazio-tempo e collocano il luogo della vicenda in una sorta di dimensione parallela, ambigua e misteriosa, pregna di fascino ma allo stesso tempo ricca di un'inquietudine opprimente, che avvinghia in un vortice destabilizzante. Paradossalmente la storia risulta più accessoria che fondamentale, rimettendosi al compito di mezzo per esprimere un linguaggio astratto e deformante, come il cinema di Resnais. Il regista qui raggiunge l'apice del suo anticonformismo, fuoriuscendo come non mai da ogni schema logico, e risultando un mix di influenze svariate, amalgamate con maestria in un costrutto fuorviante ma non sfuggente, per cui nonostante le contorsioni narrative siano condotte all'estremo, il ritratto di questo rapporto impenetrabile si fa nitido in mezzo alla foschia che impera. Come assistere a una sinfonia di suoni e immagini che conducono al nulla, o forse al tutto. L'anno scorso a Marienbad può essere paragonato a un quadro di Picasso, non per forza comprensibile, ma di cui è impossibile negarne il valore e l'attrazione da esso esercitato.