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Il cane giallo della Mongolia

30/04/2010 11:00

Maurizio Encari

Recensione Film,

Il cane giallo della Mongolia

Byambasuren Davaa, originaria della Mongolia, si è trasferita nel 2000 in Germania iniziando a studiare cinema, e proprio in terra teutonica ha ottenuto il succ

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Byambasuren Davaa, originaria della Mongolia, si è trasferita nel 2000 in Germania iniziando a studiare cinema, e proprio in terra teutonica ha ottenuto il successo di critica (e anche di pubblico in molti Paesi) con la sua opera prima, il toccante documentario La storia del cammello che piange. Due anni dopo, nel 2005, vede la luce il suo secondo lungometraggio, Il cane giallo della Mongolia, che pur seguendo la scia documentaristica, è proposto come lavoro di fiction, per quanto molto attinente alla realtà. Collocandosi nella scia del cinema d'ambientazione mongola (tra gli ultimi esponenti una doverosa citazione a Il matrimonio di Tuya, Orso d'Oro a Berlino), il film offre un ritratto della vita rurale di una famiglia nomade, e mostra la bellezza di paesaggi sconfinati in cui l'uomo è men che un puntino in lontananza.


Nansa, la figlia maggiore di una famiglia nomade della Mongolia, trova nelle vicinanze dell'accampamento un cucciolo di cane, spaventato e affamato, e decide di tenerlo con sé, nonostante la netta opposizione del padre. L'uomo infatti ha paura che la bestiola sia frutto di un incrocio coi lupi, che fiutandone l'odore potrebbero trovarlo e così sbranare il gregge, unica fonte di sostentamento e guadagno per tutti. Nansa ha anche una sorella e un fratello più piccoli, cui spesso deve badare. Ma un giorno, condotte le pecore a pascolare nelle immense pianure, Nansa si perde cercando il cucciolo che si era allontanato, e prima di essere ritrovata dalla madre, viene accudita da una solitaria vecchia. L'anziana le racconta la leggenda di un cane giallo, che anni prima aveva condizionato l'intera esistenza di una famiglia del luogo, e che si sarebbe reincarnato in un giovane dai biondi capelli. Tornata a casa, la bambina cerca di trovare il significato di quelle parole, ma intanto è tempo di spostarsi con le tende (vere e proprie case mobili per i nomadi della Mongolia) verso un altro luogo. E il cucciolo, chiamato Macchia, sembra destinato a rimanere con lei.


Un'opera eterea, maestosa nel suo minimalismo, nella sua narrazione di un tipo di vita totalmente estraneo alla consumistica cultura occidentale. Un rapporto con la natura, potente e magnifica, di pace e rispetto, in luoghi dove le strade non esistono, ed è necessario un giorno di motocicletta per giungere alla città più vicina. Un'esistenza rurale che affascina e spaventa allo stesso tempo, ma che esercita una sorta di magia magnetica che rapisce e conduce in un viaggio fuori dal tempo, un percorso dell'anima quasi terapeutico. Certo, chi vive di cinematografia commerciale di genere, ha poco da spartire con l'atmosfera spartana e idilliaca di una pellicola di questo tipo, ma per chi vuole anche conoscere la realtà di altre culture, Il cane giallo della Mongolia è assolutamente da non perdere. Non succede quasi nulla, la trama è appena accennata, è come immergersi per un breve periodo di tempo nella vita di una famiglia nomade, intenta a svolgere le tipiche attività giornaliere per sopravvivere. Ed è proprio la spontaneità dei protagonisti (interpreti di loro stessi), il cui apice è nella tenera genuinità dei bambini, a rendere la pellicola della Davaa un piccolo capolavoro di grazia e dolcezza.


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