Stanco della monotona esistenza borghese Arthur Hamilton (John Randolph) si affida ad un’organizzazione segreta per cambiare vita. Il desiderio di ritornare sui propri passi e riabbracciare i suoi cari coinciderà con una condanna a morte. Non è un caso che Operazione Diabolica rappresenti nuovamente la trasposizione cinematografica di un romanzo (cioè Seconds di David Ely). Come per Va' e Uccidi e Sette Giorni a Maggio, anche il terzo tassello “paranoico” della trilogia riconducibile al cinema di John Frankenheimer è in grado di vantare spunti letterari, ma rispetto ai suoi predecessori è quello che concede maggiore attenzione alla matrice d’origine. Non tanto per la fedeltà al testo d’appartenenza, quanto per l’humus culturale al quale sembra fare riferimento. Rock Hudson (qui nelle vesti di produttore aggiunto), presta il volto ad un personaggio chiaramente ispirato al mito di Faust, sui cui tratti caratteriali potrebbero aver tranquillamente lavorato Luigi Pirandello e John Updike. Arthur Hamilton incarna gli “ideali” propri di una certa letteratura americana e non, e tra le righe del suo indomabile desiderio di evasione da una realtà avvertita ormai come opprimente e aliena è facile intravedere i fantasmi de Il Fu Mattia Pascal e Corri Coniglio; archetipi su carta di un desiderio tanto socialmente vigliacco quanto umano: fare tabula rasa e scomparire, per ricominciare da zero in un altro posto, sconosciuto a tutti. La fuga semplicemente verso qualcos’altro è una delle chiavi d’accesso al romanzo post moderno del ‘900, linea di congiunzione che calza a pennello con il percorso intrapreso nel 1962 da John Frankenheimer. Assuefatti e traumatizzati dal pericolo di una guerra atomica tra Stati Uniti e Unione Sovietica, non resta che abbandonare tutto, rifugiarsi in una qualsiasi isola segreta e sperare che ciò che si teme accada il più tardi possibile. Dalla fantapolitica di The Manchurian Candidate alla “fantasociologia” di Seconds il passo è breve. Lo strappo tematico giova soprattutto all’autore, libero finalmente di tornare a misurarsi con una vicenda visionaria, psicologica e psicoanalitica. La macchina da presa riprende a viaggiare in perfetto contrappeso tra piani vaneggianti e ottiche utopistiche, scortata mano nella mano da un script ad effetto che, pur non privo di qualche ingenuità comunque perdonabile, stupisce per effetto e coraggio (si “leggenda” persino di una sequenza orgiastica, naturalmente mutilata dalle cesoie della censura, nella scanzonata California “off” popolata da artisti e pittori). L’agghiacciante condanna successiva alla rottura del patto con il Mefistofele moderno conferma quanto Frankenheimer sia stato autore pensante e resti, al giorno d’oggi, insospettabile fonte d’ispirazione. Scivolato via l’ultimo titolo di coda di Operazione Diabolica, sarà impossibile non comprendere quanto importante sia stata la visione di questa gemma di celluloide nella stesura di un suo parziale erede, che risponde al nome di The Game di David Fincher.