Non condividendo la decisione del presidente degli Stati Uniti di disarmare l’America dalle proprie bombe atomiche in accordo con la Russia, il generale Scott (Burt Lancaster) ordisce un complotto per destituire la prima carica politica americana. Bastano due anni a John Frankenheimer per trasformare il suo cinema da “paranoico” in “militare”. Nel 1962 il primo tassello della celebre trilogia con Va' e Uccidi: nel 1964 lo step successivo (in mezzo altri due film, tra i quali il sublime prison movie L’uomo di Alcatraz). Sette Giorni a Maggio vede la luce nelle sale 365 giorni dopo l’omicidio Kennedy, e riversa in poco meno di due ore angosce e paure di una nazione intera. Trasposizione sul grande schermo dell’omonimo romanzo firmato a quattro mani da Fletcher Knebel e Charles W. Bailey II, Sette Giorni a Maggio segue lo stato d’animo suggerito da The Manchurian Candidate, modificandone la prospettiva di attuazione del piano. Va' e Uccidi serviva su un piatto d’argento il divenire di un complotto che aveva come chiavi di violino la manipolazione dei giochi elettorali, Sette Giorni a Maggio si concentra sugli egocentrici equilibri di potere riconducibili all’esercito. Film chiuso e a tratti claustrofobico (le sequenze in interno surclassano numericamente quelle in esterna), l’undicesima fatica dietro la macchina da presa di Frankenheimer trasmette un senso di piacevole oppressione figlio della congiura nata nelle segrete stanze del potere armato. L’America, ormai sull’orlo di una crisi di nervi, ha accettato il concetto di pace indotta, cioè raggiunta solo ed esclusivamente attraverso la minaccia di una guerra. La richiesta di scendere a patti con la Russia disarmandosi in accordo spacca in due il paese. L’obiettivo dell’autore e proprio questo: illustrare attraverso i meccanismi del thriller la complessa situazione di impasse politico-ideologica che dalla gente comune arriva fino ai meeting di chi è stato eletto per governare. Tra i due estremi la variante impazzita dei più alti in grado riconducibili all’esercito stelle e strisce: culla del super-Io umano pronto a sovvertire piani sgraditi. Più che sull’ossessione fantapolitica, quindi, Sette Giorni a Maggio finisce per concentrarsi sul latente complesso del cesarismo, sindrome capace di trovare spesso e volentieri terreno fertile nella società americana. Cristallina, spietata e inquietante nel trasmettere il messaggio d’intenti, la pellicola si dimostra stranamente ingessata quando, oltre al contenuto, deve misurarsi con forma e sopratutta sintassi cinematografica. Ciclopico e macchinoso, il film si affida esclusivamente al suo sottotesto, rischiando di ritrovarsi ad un passo dall’annoiare anche nel bel mezzo della scansione temporale finalizzata alla scoperta della congiura (il settimo dei giorni di maggio, appunto). Intoppi evidenti di una sceneggiatura non eccelsa, sulle cui responsabilità grava una regia accademica, che opta sempre e comunque per il movimento di macchina classicheggiante, configurazione di un modo di raccontare per immagini che Frankenheimer aveva dimostrato di saper terremotare con Va' e Uccidi. Un passo indietro, almeno dal punto di vista della grammatica: condotto in porto grazie alla superba alchimia tra il retto Kirk Douglas e l’antagonista Burt Lancaster, attore quest’ultimo, decisamente nelle grazie del regista e pronto, appena un anno dopo, ad indossare i panni del macchinista ribelle nel palpitante Il Treno.