Julie vede l’amato Davide morire sulle scale della chiesa subito dopo averlo sposato. Responsabili dell’involontario omicidio sono quattro uomini ai quali la donna risalirà per vendicare il marito assassinato. «La suspense è in sé spettacolo. È l’arte di mettere il pubblico nell’azione, facendolo partecipare al film.» La magia tutta de La Sposa in Nero risiede nelle parole del suo regista, rarissimo caso di cineasta capace di coinvolgere chi guarda nonostante le carte del gioco siano scoperte già in partenza. Nell’adattare per il grande schermo il primo tassello della serie nera data alle stampe da Cornell Woolrich, Francois Truffaut apporta ai meccanismi del testo d’origine una sola ma significativa modifica: lì dove il romanziere occultava, tenendo nascoste fino all’ultimo capitolo identità e motivazioni della protagonista, Truffaut rivela; mettendo progressivamente al corrente del perché, la magnetica Julie, è spinta dal desiderio di vendetta nei confronti dei cinque scapestrati che nell’originale si facevano chiamare i “diavoli del venerdì sera”. Un rischio che, da calcolato, si trasforma ben presto in fragoroso punto di forza. Truffaut, passando dalle parole ai fatti, riscrive letteralmente le regole di un genere all’interno del quale lo spettatore diventa elemento essenziale, perché coinvolto in prima persona nella narrazione attraverso il crescente sentimento di patteggiamento nei confronti dell’innamorata vendicatrice. Nonostante dei vari Bliss, Coral, Morane, Holmes e Fergus si conosca poco o nulla, risulta impossibile provare per loro la benché minima pietà. Noi siamo Julie, camaleontica macchina di morte al servizio del personale sentimento di vendetta, e come lei desideriamo una sola cosa: vedere le loro vite spegnersi nell’illusione che altrettanto faccia il nostro dolore. Truffaut, pur accennando alle qualità da minus habens dei cinque in questione (un donnaiolo, un nullatenente, un padre assente, un malvivente, un pittore che utilizza il suo charme per sedurre le giovani e inesperte modelle), non calca mai la mano sui lati negativi della combriccola, e addirittura quasi nasconde alla vista del pubblico la vittima maggiormente colpevole dal punto di vista sociale (Holmes, uomo di malaffare che di fatto uccide, pur involontariamente, Davide); procedendo invece per sottrazione: messa in scena scarna (eccezion fatta per l’episodio di Diana cacciatrice), pochi dialoghi, un solo motivo d’accompagnamento (lo stesso utilizzato da Bernard Herman ne La Donna che Visse Due Volte di Alfred Hitchcock). Quasi la macchina da presa fosse protesi filmica della mente di Julie, ossessionata dal desiderio di regolamento dei conti. La Mariee etait en Noir rappresenta il miglior adattamento “woolrichiano” di sempre, non tanto per il blasonato nome del suo autore (che lesse The Bride Wore Black di nascosto, all’età di 13 anni), quanto per la sensibilità empatica prima che cinematografica, nel catturare il Woolrich pensiero. Scrittore di un amore unico e irripetibile, nato nell’infanzia e ripromesso nell’età matura. Un sentimento che, se sottratto, finisce per uccidere la parte migliore di chi ha osservato, impotente, la sua scomparsa.