Film di diploma della scuola del cinema di Monaco di Baviera, La storia del cammello che piange è il perfetto esempio di cosa dovrebbe essere il cinema documentaristico. Progetto a quattro mani diretto dall'italiano Luigi Falorni e la mongola Byambasuren Davaa (autrice anni dopo dello splendido Il cane giallo della Mongolia), è stato distribuito nelle sale italiane da Fandango che, sia per risparmiare sui costi ma anche, e soprattutto, per garantire una maggiore veridicità degli eventi, ha optato per la scelta di limitarsi a semplici sottotitoli senza impegnarsi nel doppiaggio. Candidato agli Oscar e ai Golden Globe, ha ottenuto diversi riconoscimenti in vari festival internazionali, pur rimanendo comunque un prodotto "di nicchia". Una famiglia di pastori mongoli, che abita nel deserto dei Govi, alleva pecore e cammelli. Un giorno una delle femmine di cammello partorisce un piccolo dal colore bianco. Ma per qualche motivo "rifiuta" il nuovo nato, che senza le cure della madre e il latte materno potrebbe morire di stenti. I due membri più giovani della famiglia, un bambino e un ragazzo, partono allora per la città più vicina, alla ricerca di un suonatore di violino. Infatti, solo la sinuosa musica suonata dallo strumento sembra possedere la "magia" di riconciliare la madre al figlio. Lo sguardo su una realtà lontana, sia dal punto di vista territoriale ma soprattutto da quello etico. Un mondo dove la natura incontaminata è sinonimo di bellezza, anche interiore, e dove per salvare un cucciolo di cammello la gente si applica, e non rimane indifferente alla sofferenza, di qualunque essere vivente si stia parlando. Emerge anche la solidarietà profonda che accomuna queste piccola comunità di pastori e contadini, pronti a darsi la mano l'un l'altro senza chiedere niente in cambio. La totale assenza di necessità materiali, dove anche la corrente elettrica o un semplice televisore sono un lusso cui si può rinunciare, in favore di un rapporto più sincero e umano con gli altri componenti del nucleo familiare, capace di dare fiducia anche ai più piccoli del gruppo. Lasciar andare un bambino, al galoppo di un cammello, con la sola custodia del fratello maggiore, in un lungo viaggio attraverso il deserto, mostra come sia assai diversa la maturazione di un figlio nella società mongola rispetto a quanto si osservi nella protezionistica "civiltà " occidentale. Ma il film è anche un tenero e lucido incontro con queste splendide creature, quadrupedi di grandi dimensioni qui poco conosciuti se non per essere osservati e sfruttati in rappresentazioni circensi, e che si rivelano compagni e "aiutanti" di grande importanza per i loro padroni. Un legame di rispetto e reciproca utilità , in una società rurale che ha molto da insegnare al cosiddetto mondo moderno. Perché i veri valori qui vivono ancora sani e intatti, la cultura e le antiche tradizioni sono un punto cruciale dell'esistenza, e l'armonia con il creato è tale da essere fondamentale per tutti. La regia indaga, scruta, osserva senza intromettersi troppo in questa realtà che è già troppo bella nella sua naturalezza da non dover aggiungervi altro. E questo, è ovviamente un merito.