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Chaotic Ana

02/06/2010 10:00

Giuseppe Salvo

Recensione Film,

Chaotic Ana

Il caos, nel suo significato primordiale, equivale a fenditura, fessura, o anche abisso, oscurità...

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Il caos, nel suo significato primordiale, equivale a fenditura, fessura, o anche abisso, oscurità. Da questi richiami atavici e ancestrali, più che dall’accezione psicologica di disordine e confusione mentale, si muove l’introspezione femminile di Julio Medem, che dall’oscurità di un antro primitivo, schiude le porte dell’inconscio muliebre, di un fertile e vertiginoso labirinto sensoriale, e le tiene aperte alla trasmigrazione del dolore e della sofferenza.


Ana (Manuela Vellés) vive col padre in una grotta che si affaccia sul mare di un’isola spagnola, senza elettricità e a lume di candela, in uno stato di natura molto lontano dai bisogni e dalle necessità del mondo civile. Vende i suoi dipinti al mercato, e un giorno Justine (Charlotte Rampling), sofisticata sedicente mecenate che coltiva giovani e talentuosi artisti, le propone di seguirla nella sua residenza a Madrid. Qui, la giovane instaura rapporti di amicizia, ma anche di intesa artistica e sentimentale; si invaghisce infatti di Said (Nicolas Cazalé), anch’egli pittore, e proprio con lui scopre un universo, fino a quel momento velato, di forti emozioni e suggestioni interiori. E proprio dall’incontro con il giovane sahariano, che Ana comincia ad avvertire delle strane sensazioni, delle visioni incomprensibili che hanno la parvenza di ricordi di altre vite. In preda al deliquio provocato da una di queste crisi, Ana cade in uno stato di trans nel quale parla una lingua da lei sconosciuta. Una volta sveglia, e avendo realizzato che Said è fuggito dalla sua vita in seguito allo strano episodio, la ragazza decide di farsi sottoporre a sedute di ipnosi regressiva, tenute dallo specialista Anglo. L’ipnotista scoprirà che nei meandri della mente di Ana si intersecano le tragiche vicende di donne di ogni parte del mondo, vissute e morte molto tempo prima di lei.


Il regista di Lucia y el sexo si rifugia nuovamente in quella cavità angusta della percettiva sensualità femminea. Ripercorrendo il conto alla rovescia usato nell’ipnosi, Medem suddivide la pellicola in undici segmenti dal 10 allo 0, ma riuscendo solo in parte a suturarli omogeneamente. I tre momenti della storia della protagonista (la scoperta dell’amore, le sedute ipnotiche, la ricerca di una rivalsa femminile) sono minate da cambi di registro disorientanti e poco riusciti, e anche i tentativi di simbolismi e metafore sparse per il film (l’epilogo risolve il tema della sottomissione della donna che nel prologo era anticipata dal giogo imposto dal cacciatore sulla preda, secondo inesorabile legge di natura) si perdono in una narrazione e in dialoghi talvolta inconsistenti. La migliore interpretazione rimane quella dei quadri della sorella di Medem (prematuramente scomparsa e alla quale la pellicola è dedicata) che diventano, nel film, le opere della protagonista messe in scena, e sentiero del sentire irrazionale e vulnerabile, reso - in alcune sequenze in cui i dipinti si animano tridimensionalmente, con più di un occhio a Io ti salverò - reminescenza valicabile e percorribile. Una metempsicosi del dolore femminile, una ciclicità dell’amore reciso, che trova la sua definitiva incarnazione in una pellicola dal corpo estremamente suggestivo, un involucro visivo (e visionario) che suggerisce affascinanti rimandi al surrealismo onirico, ma che paradossalmente perde, nel suo insistito pellegrinaggio esoterico e interiore, la profondità della propria anima.


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