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Il padre dei miei figli

04/06/2010 10:00

Tania Marrazzo

Recensione Film,

Il padre dei miei figli

Dopo aver ottenuto a Cannes il Premio speciale della giuria nella sezione Un Certain Regard, arriva in Italia uno dei film più acclamati dalla critica francese.

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Dopo aver ottenuto a Cannes il Premio speciale della giuria nella sezione Un Certain Regard, arriva in Italia uno dei film più acclamati dalla critica francese. Il padre dei miei figli è il secondo lungometraggio dell’appena ventottenne Mia Hansen Løve, già premiata per Tout est pardonné e nuova promessa del cinema d’oltralpe.


In parte autobiografica, la pellicola ricalca le vicende di quello che fu il produttore del primo film della regista, Humbert Balsan, figura divenuta leggendaria negli ultimi trent’anni in quanto, grazie al suo coraggio e al suo amore per il cinema, riuscì a portare a compimento i progetti più audaci nonostante le continue difficoltà economiche, guadagnandosi in questo modo la stima di una folta schiera di cineasti che vi riconoscevano uno dei pochi produttori che vedeva nel cinema una missione, piuttosto che un mercato. E difatti è su di lui che è plasmato il personaggio di Grégoire Canvel (Louis-Do de Lencquesaing) a capo della Moon Films, prestigiosa casa di produzione, ma continuamente sull’orlo del collasso finanziario. Affascinante e carismatico, Grégoire è totalmente dedito al suo lavoro, tanto da trascurare a volte le sue amatissime figlie e la moglie Sylvia (Caterina Caselli) che, nonostante tutto, continua sempre a rimanergli accanto. Purtroppo coniugare l’amore per l’arte cinematografica con il bisogno continuo di denaro non è sempre facile; anzi a volte diviene addirittura impossibile, ed è difficile che un uomo, da solo, per quanto sia ostinato, riesca a sostenere la pressione di un sistema così preformato.


Il Padre dei miei figli è una dichiarazione d’amore della Hansen Løve per il mestiere del cinema attraverso un eroe tragico, ma è anche un film sul bisogno di ricominciare e, nella sua drammaticità, un inno alla vita. Così morte e rinascita si intrecciano in una storia orchestrata magistralmente, eccetto qualche passaggio lento, che riesce a tratti a toccare livelli di profondità davvero elevati. Senza troppe lacrime e prevalentemente in silenzio si consuma infatti il dolore delle donne Canvel e a commuovere non è l’esibizione della sofferenza, ma il trattenerla, come se non si riuscisse ad esprimerla in nessun modo. Si sa che accettare la vita significa affrontarne i molteplici aspetti, di conseguenza, metabolizzato il dramma, l’allegria e la tranquillità ritornano nella famiglia, tenuta insieme e portata avanti dalla forza della madre Sylvia che assume il ruolo di protagonista nella seconda parte del film.


Attraverso l’obiettivo della macchina da presa la regista va alla ricerca del suo senso della vita: «Malgrado non creda in Dio, per me il cinema non può essere altro che ricerca di luce, è quindi ricerca dell’invisibile». Le troppe cose che ci circondano spesso non ci permettono di individuare e isolare quelle davvero importanti. Come accade nel film, a volte avremmo tutti bisogno di un blackout per scoprire quante stelle brillano nel cielo e quanto incantevole può essere la loro visione. Solo dopo aver assistito a questo spettacolo, Sylvia e le sue figlie trovano finalmente il coraggio per dare una svolta alla loro vita: cambiare non significa cancellare perché i ricordi perpetuano la memoria delle persone care e rendono possibile la vita dopo la morte; l’importante è andare avanti malgrado tutto. Le note speranzose di Que Sera, Sera non potevano concludere meglio questa storia che coinvolge emotivamente, sempre con dignità.


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