Quando si dice un’attesa lunga anni. Era inevitabile che una delle serie made in USA più fortunate della storia tornasse alla ribalta, soprattutto durante una congiuntura economica disastrosa, in un momento in cui i produttori mostrano legittimamente un’avversione sempre più spiccata al rischio, e quando un marchio che tira può rappresentare molto più che un’ancora di salvezza. Il tutto si è materializzato in seguito a un’odissea di vent’anni, condita da svariati crossovers e un paio di spin-off. Dopo i primi due episodi realizzati alla fine degli anni '90, la 20th Century Fox ha iniziato subito a pensare a un ulteriore sequel targato Robert Rodriguez – la scena finale del secondo film lasciava le porte apertissime in tal senso – ma il progetto non si è mai concretizzato ed è stato ripreso solo recentemente, basandosi sulla prima sceneggiatura originale del cineasta texano e affidando la macchina da presa al promettente giovane regista Nimròd Antal, scelto appositamente da Rodriguez che ha preferito occuparsi a tempo pieno della produzione. Ad ogni modo sarebbe corretto parlare di reboot più che di sequel, visto e considerato che la saga sembrava morta e sepolta, senza contare che si è voluto ripensare alla sceneggiatura in una chiave molto più moderna, a tratti pulp. L’ipotesi più accreditata spingerebbe a definirlo un remake liberamente ispirato al primo storico capitolo con Schwarzenegger. Una manciata di soldati, guerriglieri e malviventi vengono paracadutati improvvisamente in una giungla fitta e selvaggia. Sembrano tutti inconsapevoli del come e del perché siano giunti in una zona così inospitale e impervia. Decidono dunque di proseguire in gruppo e affrontare il luogo sconosciuto. Dopo qualche perlustrazione si rendono conto di trovarsi in territorio alieno e di essere diventati prede delle creature autoctone, in quello che per esse sembra un vero e proprio addestramento. È l’inizio di una caccia spietata e di una disperata fuga per la sopravvivenza. Il fatto che il film sia stato ripescato improvvisamente dal fondo del cassetto dopo quindici anni dovrebbe già far riflettere. I primi due Predator sono diventati dei veri e propri cult, sebbene la loro fama sia stata principalmente garantita dagli stupefacenti effetti speciali applicati all’alieno e dalle profonde radici "blockbuster". Quelle che erano le (numerose) pecche dei titoli originari risuonano con veemenza anche nell’ultimo Predators. Ecco rivivere dunque l’ennesima trama impalpabile e la totale mancanza di complessità nel profilo dei protagonisti. Lo spettatore continua a chiedersi per tutto il tempo chi siano le figure davanti a loro, ma gli è concesso solamente farsi sballottare continuamente dal noioso e prevedibile corso degli eventi, fino all’invocato termine del film. Arrivati ormai al terzo episodio della saga, ci si è rassegnati a non sapere nulla di nuovo riguardo ai predatori, senonché siano degli eccellenti cacciatori invisibili con la vista a infrarossi. Quantomeno, la presenza insolita del muscoloso Adrien Brody risulta assai più digeribile dei suoi piatti predecessori. A Rodriguez va inoltre riconosciuto il merito di aver in parte rinnovato una struttura davvero troppo statica e antiquata, nel conferire un pizzico di imprevedibilità alterando (alla Lost) i rituali connotati del genere. Positiva anche la prova di Antal, che riesce a smorzare i consueti ritmi freneticamente americani, rendendo onore alla natura dei luoghi selvaggi e risaltando delle sfumature che a tratti fanno tornare alla mente il survival horror dei primi Resident Evil.