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Viaggio allucinante

19/08/2010 11:00

Luca Lombardini

Recensione Film,

Viaggio allucinante

Una sonda-sottomarino con a bordo un equipaggio formato da un'equipe di medici e militari viene rimpicciolita e inserita nell’organismo di un famoso scienziato

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Una sonda-sottomarino con a bordo un equipaggio formato da un'equipe di medici e militari viene rimpicciolita e inserita nell’organismo di un famoso scienziato in fin di vita allo scopo di salvarlo. Tempo massimo di durata della missione: un’ora.


Uno dei titoli imprescindibili affinché l’appassionato di fantascienza possa effettivamente definirsi tale. Due anni prima del teorico Lo Strangolatore di Boston, Richard Fleischer raggiunge la quadratura definitiva del suo cerchio creativo trasformando la macchina da presa in sonda medica. Lo studio, ancora in divenire, sull’immagine, subisce una brusca inversione di tendenza: non più specchi o diverse soggettive di vista e fruizione della realtà, bensì uno sguardo il più approfondito possibile, cioè dall’interno dell’organismo umano che, da luogo nascosto e miniaturizzato, si trasforma in location naturale, ampia e sterminata; all’interno della quale qualsiasi prospettiva fino ad allora conosciuta viene di fatto ribaltata. Le percezioni di grande e piccolo si scambiano i ruoli, quasi che a guidare il movimento delle pedine in gioco ci fosse una linea di pensiero riconducibile ai racconti di Richard Matheson. La principale qualità della pellicola risiede proprio in questa semplice, ma geniale, intuizione: rendere gigante e minaccioso ciò che percepiamo innocuo perché infinitesimale finisce per spiazzare, ancora oggi, anche lo spettatore più scafato e insensibile al genere.


Viaggio Allucinante è sorretto da una duplice tensione: la prima esterna alla capsula del sottomarino miniaturizzato, la seconda interna alle dinamiche di interazione più o meno evidenti e insite nella squadra di soccorso (la claustrofobia iniziale o i ripetuti sabotaggi intestini); a questo gioco al rimbalzo di suspense e fobie, naturalmente, si aggiunge il fattore tempo: 60 minuti oltre i quali non è possibile andare, pena la morte tramite progressivo ritorno alle dimensioni naturali. Alveoli, arterie e vasi sanguigni vengono immortalati con l’immutato approccio fisico del regista (tutto è pressoché in movimento continuo) al quale si aggiunge un piglio iperrealista, prossimo all’universo pop, esaltato da una fotografia in grado di sottolineare, con uguale abilità, colori caldi e freddi. Il corpo umano diviene così universo all’interno del quale perdersi, mentre l’individuo, da mero contenitore di tanta immensità, si trasforma in particella: potenziale elemento di pericolo nel momento in cui le sue dimensioni dovessero crescere oltre il limite di guardia consentito. Lapidaria la chiave di lettura finale: le creature votate alla distruzione siamo noi. Il nostro organismo attacca solo se messo nelle condizioni di difendersi.


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