La città di Boston è terrorizzata dall’assassino seriale che i giornali battezzano come “lo strangolatore”. Prede del maniaco: donne sole in casa. La polizia indaga a lungo invano, finché una semplice effrazione andata male non le consegna un soggetto affetto da sdoppiamento della personalità. Fleischer riprende il tema a lui caro del serial killer (affrontato la prima volta nel ’49 con Seguimi in silenzio), vince la sua personalissima sfida tecnica e firma la pellicola grazie alla quale verrà ricordato. Interamente concepito e concentrato sull’immagine, Lo Strangolatore di Boston lavora intorno alle diverse possibilità di messa in scena attraverso l’uso insistito, calibrato e affascinante dello split screen. Teatralmente diviso in tre atti (la prima parte incentrata sulla percezione sociale degli omicidi, la seconda e la terza, invece, rispettivamente concentrate sulle gesta dell’idraulico assassino e sugli interrogatori successivi alla fortunosa cattura), il film si dimostra estremamente attento al suo sotto-testo meta-filmico (la continua intromissione di telecamere e notiziari televisivi) e folgorante nel rivelare un mostro che di diverso dalla gente comune, quella per bene, non possiede nulla, ma al contrario spiazza e sorprende, attraverso i bonari tratti dell’insospettabile Tony Curtis; uomo qualunque, dall’impiego medio, arreso inconsapevolmente ad una vita doppia e per metà omicida. Fleischer non sembra affatto interessato all’atto in sé (spesso e volentieri immortalato una volta avvenuto o, nel migliore dei casi, fuori campo), bensì a ciò che conduce a questa tipologia di gesto ripetitivo e alle inevitabili ripercussioni popolari figlie della gran cassa mediatica (non a caso ci troviamo a Boston, metropoli degli Stati Uniti puritana per eccellenza). La regia, che questa volta non può, almeno parzialmente, suggerire risvolti psicologici, si riserva di percorrere sentieri sperimentali esclusivamente nell'introduttiva tranche di racconto, convertendosi al classicismo della ripresa una volta che, dall’esterno della metropoli, si passa all’interno del manicomio. Nel suo insieme, quindi, un'opera che cerca e riesce nell’intento di evitare i sensazionalismi tipici del thriller, elude le attese dello spettatore voyeur durante le scene d’omicidio e utilizza lo schermo diviso quasi esclusivamente come artificio tecnico, utile però nello spezzare al momento giusto l’enfasi del racconto, reso ancor più intrigante da questo insolito procedimento per sottrazione. Non ne risente la drammaturgia dei fatti, che affoga la percezione di chi guarda nel lunghissimo sottofinale, quando l’obiettivo si immerge nel bianco monocromatico assieme alle illusioni di un uomo, ormai sconfitto dal mostro che lo divora. La morale, sfacciata, seducente e ideologicamente scottante, ribalta la concezione “langhiana” del crimine. Dal siamo tutti colpevoli si passa al tutti innocenti. A suo modo una svolta storica. La spia di come l’epoca dello studio system sia già un lontano ricordo, pronto a lasciare spazio al decennio della new Hollywood ormai alle porte.