Walter Brown, agente di polizia di Chicago, vede morire il suo compagno non appena la vedova di un gangster viene prelevata dal suo nascondiglio. Toccherà a lui, da solo, scortare la donna in treno verso Los Angeles, dove è attesa come testimone chiave ad un processo. La pellicola tramite la quale Richard Fleischer si accommiata dal noir vecchia maniera, è senza ombra di dubbio l’opera meglio riuscita del suo intero periodo trascorso alla RKO. Le Jene di Chicago (suggestiva ma inverosimile variazione sul tema rispetto all’originale The Narrow Margin) si nutre del buio fotografico e della claustrofobica scenografia: 70 minuti dove il nero fagocita il bianco, poco più di un’ora di racconto per immagini che si trasformano ben presto nel bignami della tensione secondo Fleischer. Girato in appena 13 giorni, il film trova la sua esaltazione nel set ferroviario, ponendosi agli antipodi del genere come modello per futuri emuli (uno su tutti l’apocrifo remake Rischio Totale, diretto nel 1990 da Peter Hyams con Gene Hackman nel ruolo che fu di Charles McGraw). L’abilità del regista risiede tutta nel trasmettere sull’epidermide dello spettatore l’oppressione figlia degli spazi angusti e della continua incombenza della minaccia, logica conseguenza della caccia all’uomo, che tramuta protagonista e insospettabili comprimari in lepri in fuga lungo un labirinto di carrozze. La macchina da presa si incolla ai connotati dei personaggi fin dalla primissima sequenza (l’interno di un taxi) per non allontanarsi più, encomiabile nel sottolineare le difficoltà di movimento, e quindi l’impossibilità dell’evasione, una volta udito il fischio del capostazione. Fleischer, come sempre impeccabile dal punto di vista tecnico, coglie l’occasione per spezzare la tagliente e crescente tensione con divertiti inserti umoristici (vedi l’ispettore di polizia ferroviaria sovrappeso o le continue incursioni del bambino curioso e urlante), legando a doppio nodo Le Jene di Chicago con La Signora Scompare di Hitchcock. Walter Brown, invece, altro non è che l’ennesimo agente di polizia tutto d’un pezzo: solo, braccato e costretto al dovere nonostante il rimorso per la prematura dipartita del collega, trionferà attraverso le armi tipiche del poliziesco d’epoca - ferrea moralità , animo incorruttibile e indefesso senso del dovere; mentre al suo fianco Marie Windsor e Jacqueline White giocano ad ingannare chi guarda rimbalzandosi lo stereotipo della pupa del gangster e suggerendo ancora una volta ruoli femminili tutt’altro che marginali. Ormai definitivamente a suo agio con il genere, Fleischer ripropone l’ennesimo corpo a corpo accelerato nei fotogrammi, già visto nel finale di Squadra Mobile 61, ma questa volta reso ancor più affascinante dal ristretto spazio dello scompartimento dove tutore della legge e sicario si confrontano. Altro riconoscibile autografo d’autore il risolutivo colpo di pistola finale, esploso prendendo la mira nel riflesso del finestrino.