
Sul finire degli anni Cinquanta le vite di un anziano intrattenitore di strada e quella di una giovane ragazza si incrociano e percorrono per un breve periodo la stessa strada. Lui è un illusionista, surclassato ormai dall’avvento delle più gettonate rock star e costretto a vagare da una città all’altra alla ricerca di un palco che lo accolga; lei è Alice, una cameriera nata e cresciuta in un remoto villaggio su un’isola della Scozia, in parte estraneo alla civilizzazione esterna, dove si organizzano feste per l’arrivo della corrente elettrica dalla terraferma. Le sue origini rendono Alice particolarmente ingenua e la portano a credere ai trucchi dell’illusionista che finalmente trova un pubblico devoto da intrattenere, sebbene di una sola persona. Dopo sette anni dal tanto acclamato Appuntamento a Belleville, Sylvain Chomet ritorna con una nuova favola visiva, un componimento in 2D che ricorda l’estetica dei capolavori Disney degli anni Sessanta, da Gli Aristogatti a La carica dei 101. La sceneggiatura fu scritta da Jaques Tati, icona del cinema francese, circa mezzo secolo fa ma non fu mai prodotta rimanendo negli archivi del Centre National de la Cinématographie sotto l’anonimo nome di Film Tati N° 4. Una storia troppo personale per il regista che solo un “altro” avrebbe potuto raccontare: così Chomet ha raccolto la sfida propostagli da Sophie Tatischeff, figlia dello stesso Tati e alla quale il film è dedicato, scomparsa purtroppo poco prima dell’inizio della lavorazione, e ha finalmente portato sullo schermo L'illusionista, omaggio estetico, fisico, poetico, ma soprattutto sentimentale ad uno dei personaggi più cari alla cinematografia francese. Una pellicola quasi muta, in cui i pochi dialoghi non hanno carattere informativo, ma fanno parte dei rumori di fondo accrescendo a volte la comicità delle scene. Un costante campo lungo in cui la macchina da presa quasi si ferma permettendo allo sguardo di vagare libero per tutto il quadro e di osservarlo quasi come se ci si trovasse di fronte ad uno spettacolo teatrale. Il regista suggerisce, lo spettatore fa il resto. Non sono necessarie ulteriori parole o virtuosismi tecnici, nell’era del digitale e del 3D, l’essenzialità e la semplicità risultano essere la chiave per arrivare direttamente al cuore: «Il mio insistere sul disegno a mano in 2D viene dalla convinzione che questa tecnica dia un fascino eterno all’arte (...) La forza del 2D risiede, secondo me, nel fatto che vibra, cambia, non è mai uguale né perfetta, esattamente come la realtà. Le imperfezioni sono importanti quando ti stai misurando con una storia che racconta di esseri umani. Io voglio vedere il lavoro di un artista sullo schermo non quello di una macchina le cui visioni sono ordinate, brillanti, nitide.» Chomet dunque lascia parlare le immagini: attraverso i soliti personaggi surreali e distorti racconta l’instaurarsi di questa sorta di rapporto padre/figlia nello scorcio di un’epoca che sta per finire, un’epoca in cui bastava tirar fuori un coniglio dal cappello e sfilarsi un bicchiere colmo di vino dalla bocca per fare spettacolo. Illudersi significa distorcere la realtà, credere in un qualcosa che non può sussistere per sempre e che è destinato prima o poi a svanire. Ma questo qualcosa è pur sempre accaduto e le tracce di esso permangono nell’anima di chi ha vissuto l’illusione.