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Sweet Sixteen

10/10/2010 10:00

Luca Mogini

Recensione Film,

Sweet Sixteen

L’adolescenza è da sempre l’età liminale per definizione, a cavallo tra infanzia e maturità...

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L’adolescenza è da sempre l’età liminale per definizione, a cavallo tra infanzia e maturità. Con Sweet Sixteen, vincitore del premio alla miglior sceneggiatura al 55° festival di Cannes, Ken Loach mette al centro del film Liam, quasi 16 anni, e la rete di rapporti familiari e non che lo circonda. Ambientato in un quartiere povero di Edinburgo, nel film tornano tutti i temi sociali a cui il regista inglese è legato, trattati questa vota con una cruda dolcezza e uno sconfinato senso d’amore per i personaggi presenti.


Liam (Martin Compston) ha quasi 16 anni e vive in un appartamento con Stan (Gary McKormack), compagno della madre, attualmente in carcere. Il ragazzo ha abbandonato la scuola e si mantiene vendendo sigarette di contrabbando insieme al migliore amico Flipper (William Ruane). Un giorno, dopo l’ennesimo sopruso da parte di Stan, Liam decide di fuggire e trovare una casa dove poter vivere insieme alla madre, per la quale prova un amore incondizionato; ma servono soldi e il piano è semplice: rubare la droga a Stan e venderla per poter pagare una roulotte lontana dalla città. A cercare di sollevare Liam dalla sua situazione è solo Chantelle (Annmarie Fulton), sua sorella, che fuggendo di casa si è costruita una vita, trovando un lavoro in un call center. L’iniziazione verso l’età adulta del ragazzo sarà cupa e dolorosa, fino al, forse inevitabile, finale.


Duro, crudo, reale ed estremamente poetico, Sweet Sixteen è un film particolare nella vasta opera di Ken Loach. L’età di Liam permette al regista di mettere in scena un protagonista con un entusiasmo raro per il cinema sociale. Lontanissimi dai clichè del bambino e del ragazzo Liam e i suoi amici sono veri, eccessivi nelle convinzioni ferree, nei moti d’umore e nelle iniziative, violente quanto bambinesche. Paul Laverty, sceneggiatore storico del regista, inserisce in una classica trama drammatica di romanzo di formazione dei protagonisti che acquistano umanità grazie alle proprie reazioni, portando il film lontano dal rischio di risultare didascalico e forzato. Come nel resto dell’opera del regista il contrasto che da personalità all’opera è quello tra i personaggi negativi e positivi, i primi bidimensionali e pieni di banalità nel proprio essere malvagi, al punto che il sospetto è quello di vedere una situazione filtrata completamente dalla soggettività dei secondi, reali, pieni e sempre comprensibili e giustificabili. Liam è deciso a non rimanere incastrato nella propria esistenza e nel proprio ghetto, senza i mezzi per un riscatto. La scelta può avvenire solo ed esclusivamente tra due realtà ugualmente inaccettabili dal punto di vista sociale e di sofferenza psicologica: rimanere poveri vendendo sigarette, o passare alla droga, al mondo degli adulti, troppo presto e troppo male? In questo dilemma l’unica terza via è rappresentata da Chantelle, sorella del protagonista, che con la propria fuga si è guadagnata la speranza di una normalità, fatta di un lavoro, un figlio e tutte le difficoltà della vita reale e della sopravvivenza che la solitudine comporta.


A sottolineare l’unico barlume di speranza rappresentato da Chantelle c’è l’ambientazione: aperta, luminosa in casa della sorella e nella casa che Liam prenderà da solo. Con la costante presenza di un corso d’acqua, che si tratti del mare o di un fiume lontano, gli ambienti “sani”, non degradati, si contrappongono così a quelli chiusi, umidi ma moralmente aridi del ghetto dove il ragazzo vive. Il film riesce grazie agli attori - tutti esordienti del posto - i quali sono la vera linfa vitale del progetto. Loach come sempre punta a scegliere volti e persone che hanno punti in comune con i protagonisti del film e i risultati si vedono: Martin Compston è Liam, non lo interpreta; sono suoi i sorrisi, le spacconate, e gli occhi svegli e tristi, e lo stesso vale per gli altri protagonisti, perfetti nel proprio ruolo e in grado di fare la differenza e rendere vero un film che altrimenti potrebbe rischiare di sembrare forzato e cercare la lacrima a tutti i costi con gli elementi messi in scena. Prova ne è il fatto che una volta terminati i titoli di coda la sensazione è quella di aver visto la realtà, una realtà lontana, ma la cui esistenza è testimoniata dai personaggi conosciuti e lasciati in sospeso, così veri da non poter mentire sulla propria storia.


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