È stato girato nel 2008 e in questi due anni ha fatto il giro dei festival internazionali raccogliendo ampi consensi e qualche premio. Forte di molte buone recensioni - tra cui una di Morando Morandini - e di una lettera elogiativa di Lars Von Trier, cui il film è stato fatto vedere data la sua aderenza a molti canoni di dogma, L'estate d'inverno è un film italiano di un’esordiente (al lungometraggio) di 23 anni che lo scrisse appena finito il liceo. È completamente girato in tempo reale: due soli attori che si straziano l’anima, con stacchi di inquadratura alla media di uno ogni due secondi per dare ritmo da film d’azione a quello che è solamente un dialogo, ma registrato oltre i 40 gradi celsius. Niente omicidio - contrario all’idea di conciliazione che voleva lasciare Sibaldi a fine film - ma anche troppo americano come finale e invece tanta musica extradiegetica - anche trasgredendo ai canoni di dogma - che rende il film più empatizzabile e comprensibile, persino da ragazzini dice il regista meno intellettual-snob di quel che sembra, ma con cui si scandiscono anche i momenti del film, si sostanziano al di là delle quasi sempre feroci battuti i sentimenti dei due personaggi, spessissimo violenti e lacerati solo talvolta in pace. La pellicola è la storia di un ragazzo 19enne (Fausto Cabra) che alla periferia di Copenaghen ha un rapporto con una prostituta di 38 anni, Lulu (Pia Lancillotti), la quale potrebbe essere sua madre. Il ragazzo è in fuga da una realtà che gli evoca incubi e vuol parlare, confidarsi, allora decide di pagare un’altra ora per fare due chiacchiere e mercé il denaro riesce a mandare a buon fine la trattativa con cui la puttana gli offre l’occasione di carpirle un pezzo di anima. Decide allora di pagare un’altra ora per fare due chiacchiere e alla mercé del denaro riesce a mandare a buon fine la trattativa con cui la puttana gli offre l’occasione di carpirle un pezzo di anima. Inizia così il racconto-confronto delle loro storie, per molti versi simili - il regista infatti ha pensato a questi due personaggi come le parti – maschile e femminile – di una unica psiche, e si fanno reciprocamente da mentore, aiutandosi l’uno l’altro a sanare le proprie ferite. Gli sfregi, pesanti, sono legati all'abbandono, sfregi che induriscono l’anima e rendono insensibili, predisposti a fare altrettanto dopo che per continuare a vivere ci si è basati sulla legge dell’egoismo. Emozioni che colpiscono dentro, tematiche cui ogni uomo si mostra sensibile e forse proprio per tal motivo il film ha un impatto cosi alto. In 60 minuti di fitto dialogo si discute dei rapporti affettivi, l’un l’altro si urlano contro il proprio disprezzo, entrambi attaccati e desiderosi di rapporti corretti e responsabilizzati, entrambi colpevoli di esser inferiori alle proprie idee. Ognuno esprime ciò come può secondo la sua natura maschile e femminile. La donna indossa una maschera pragmatica con la quale si mostra imbruttita per schernire le frasi idealistiche del ragazzino, composte da "idealismo maschile" dato che in lui c’è lo stesso sporco che è in lei, la stessa attitudine a fuggire e ad abbandonare. Una visione in superficie dell’opera non permette di più ma addentrandosi dentro il burrascoso e tormentato universo che ha costruito Sibaldi in quella stanza di Copenaghen ci sarebbe davvero molto su cui discutere, molto da cui imparare. Il film, grazie al ritmo concitatissimo di cui abbiam detto all’inizio, non appare eccessivamente verboso, risulta invece intrigante e intenso in virtù della tensione che riesce a creare. Forse è nato un maestro, di sicuro un regista da seguire.