«Io stesso dipingevo molto una volta, senza aver seguito nessun particolare corso, e ricordo che un giorno, dopo ore di concentrazione e duro lavoro, sono stato colto da una paura irrazionale e da un senso di immensa solitudine. Non ho più toccato un pennello da allora. Quello che mi ha attratto in Séraphine, anche se suona sciocco a dirsi, è stata una sorta di vicinanza spirituale, ma anche l’ammirazione mista ad una forma di curiosità che ho sempre provato per tutto ciò che nasce dalla pura creatività , dal fuoco creativo.» Così il regista Martin Provost riassume il suo personale rapporto con Séraphine de Senlis, pittrice semisconosciuta della prima metà del Novecento che visse un’esistenza tragica ma che trovò proprio nel dolore la sua fonte di ispirazione. Le notizie reperibili su quest’artista sono scarse, anche perché buona parte delle sue opere furono distrutte durante la Seconda guerra mondiale; lo stesso Provost racconta di esserne riuscito ad approfondirne la conoscenza solo grazie alla tesi dello psichiatra Françoise Cloarec. Ad essere decisivo è stato inoltre anche l’incontro con Yolande Moreau - nota soprattutto per la black comedy Louis Michel - senza la quale il regista non avrebbe mai girato il film, in quanto a suo parere nessuno, all’infuori dell’attrice, avrebbe potuto interpretare quel personaggio perché «Yolande non recita, incarna Séraphine.» Séraphine de Senlis (Yolande Moreau), nata ad Arsy-sur-Oise nel 1864, era un’ingenua e modesta governante che svolgeva i lavori più umili per sopravvivere e per dipingere, cosa vitale per lei quanto il bere e il mangiare. Ciò che rendeva i suoi quadri tanto particolari era quella primitività con la quale venivano realizzati, il fatto che l’artista preferisse lavorare sul pavimento, usando colori non convenzionali che ricreava artigianalmente mescolando elementi naturali che spesso stendeva con le dita. Nel 1913 il noto collezionista d’arte Wilhelm Uhde (Ulrich Tukur), per il quale Séraphine faceva la governate, si accorse del grande talento della donna e cercò di incentivare e sostentare quello spirito artistico in tutti i modi, non riuscendo però a mettere da parte i suoi demoni interiori ai quali si aggiunse la difficile situazione bellica del periodo. Più che essere una biografia, la pellicola racconta l’incontro fra Séraphine e Wilhelm Uhde, suo mecenate e uomo tormentato con il quale la donna instaurerà uno strano tipo di relazione affettiva. Il regista difatti non descrive la storia della pittrice focalizzandosi sulle tappe salienti, ma struttura la narrazione su eventi marginali, su tutto quello che accade fuori e intorno alle sue opere, creando in questo modo una serie di misteri inerenti alla vita e al motore mistico/artistico che la spingeva a realizzare quelle visionarie composizioni floreali. Attraverso una regia sobria e rigorosa, con pochi movimenti di macchina, Provost riprende Séraphine, colei che paradossalmente si potrebbe definire una delle prime donne libere, che nella solitudine, nell’umiltà e nella prostrazione fisica non venne mai meno a quella cieca fede religiosa e a quella folle ritualità che costituiva il suo mondo interiore. La fotografia sempre sulle tonalità del verde, del blu e del nero, è fredda e distante come è impenetrabile Séraphine, il cui animo si apre solo alle sue opere alle quali sono invece destinati colori caldi e intensi. L’interpretazione della Moreau, che si dà totalmente al personaggio, è impressionante e mette in luce ancora una volta le doti di quella che in Francia è considerata l’attrice del momento, giustamente premiata con il César. Se il film riesce nell’intento di non essere didascalico, risulta però estremamente formale e a tratti troppo accademico, per poter rendere il contatto così stretto con la natura e il talento folle del personaggio. Accade cioè che l’eccessiva raffinatezza di Provost stoni con la primitività di Séraphine, facendo venir meno anche il coinvolgimento dello spettatore.