Anno 1890. Nella piazza principale dell’immaginaria città di Vigàta, in provincia dell’altrettanto immaginaria Montelusa, tutto è pronto per la celebrazione del “Mortorio”, ovvero la messa in scena della Passione di Cristo in cui Antonio Patò (Neri Marcorè), illustre e irreprensibile direttore della sede locale della banca di Trinacria, interpreterà la parte di Giuda. Uno dei momenti più eccitanti della rappresentazione è naturalmente rappresentato dall’impiccagione del traditore che, fra gli scherni della folla urlante, viene giustiziato e fatto cadere in una botola appositamente costruita sul palco. Accade però che alla fine dello spettacolo Patò non si trovi più: egli si è totalmente volatilizzato insieme ai suoi abiti di scena e ai vestiti lasciati nel camerino. La moglie, gli amici, l’altolocato zio, tutti si chiedono, come recita la frase scritta su un muro della città «Murì Patò o s’ammucciò?». Vengono incaricati di investigare sul caso il napoletano Ernesto Bellavia (Maurizio Casagrande), facente parte della Pubblica Sicurezza di Vigàta, e il carabiniere Paolo Giummaro (Nino Frassica). Inizialmente i due si ostacolano a vicenda nelle indagini, poi iniziano a collaborare diventando perfino amici e man mano che approfondiscono le ricerche e scoprono nuovi dettagli viene a galla una verità sempre più scottante. Il regista Rocco Mortelliti porta sullo schermo La scomparsa di Patò, tratto dall’omonimo romanzo di Andrea Camilleri edito da Mondadori nel 2000. Un’impresa non semplice quella di trasporre cinematograficamente una commedia tinta di giallo che è anche uno scorcio sociale della Sicilia di fine Ottocento e che mette in luce gli usi e gli attuali malcostumi cittadini nonché la corruzione dei vertici. La narrazione si articola attraverso una struttura di tipo circolare che pone l’enigma all’inizio della storia per poi procedere prima linearmente e poi a ritroso per sbrogliare l’articolata matassa creatasi intorno al caso Patò. Il cinema di Mortelliti si teatralizza sia nella recitazione volutamente sopra le righe degli attori, sia attraverso l’utilizzo di veri e propri siparietti idealizzati che incorniciano alcuni momenti dell’inchiesta, durante la quale ci sono incursioni dirette sulle scene del delitto che vedono i personaggi penetrare letteralmente nei flashback. La vicenda di Patò riporta in auge quel piacere ormai dimenticato del racconto di matrice letteraria, a volte con accenti surrealisti; attraverso Camilleri Mortelliti è critico ma non osa puntare il dito. L’uso di quel linguaggio esageratamente burocratico da parte delle forze dell’ordine e degli uomini di potere, contrapposto fortemente al marcato dialetto siculo della vulgata, ha chiaramente un intento ridicolizzante nei confronti delle inutili pompe che nascondono il marcio dietro il nome dell’istituzione. Neri Marcorè rende al meglio l’ambiguità del ragioniere Patò, individuo sempre in bilico fra bene e male, fra scoperte che portano lo spettatore a incriminarlo e altre che invece inducono a giustificarlo facendo comprendere il motivo delle sue azioni. Tutti sono sospettati, tutti sono innocenti, tutti sono colpevoli. E Patò è Giuda o no?