Fra i film italiani presenti al Festival del cinema di Roma Una vita tranquilla di Claudio Cupellini è stato sicuramente quello qualitativamente più alto. Si potrebbe parlare quasi di successo annunciato, per la sola presenza di Toni Servillo consacrato ormai nell’olimpo degli attori più capaci dell’industria cinematografica italiana e che non a caso è stato premiato con il Marc’Aurelio per la migliore interpretazione maschile. L’appena cinquantenne Rosario Russo (Toni Servillo), al secolo Antonio De Martino, uno dei più terribili camorristi del casertano, perseguitato e stanco della vita da malvivente decide di fuggire in Germania facendosi credere morto. Sono passati quindici anni e ora Rosario vive stabilmente in un piccolo paesino tedesco insieme al figlio e alla moglie Renate (Juliane Kohler), con la quale gestisce un ristorante albergo. Un freddo giorno di febbraio due ragazzi italiani, Edoardo (Francesco Di Leva) e Diego (Marco D’Amore), irrompono nel locale di Rosario: da quel momento le cose non saranno più le stesse. Cupellini gira un noir dell’anima, preferendo una meditazione ricca di tensione alle scene d’azione, limitandosi cioè per buona parte della storia ad osservare quella tanto agognata vita tranquilla che Rosario ha cercato di costruirsi. Un piccolo paesino di campagna isolato, sereno e non trafficato, il lavoro, la routine. La macchina da presa si sofferma sulla quotidianità disarmante nella quale l’uomo si è rifugiato, lo coglie in tutta la sua misteriosa duplicità che da assassino lo porta a diventare buon padre e marito. Ma il passato non si può cancellare cambiando nome, luogo e lavoro, fatalmente prima o poi riemerge. Il volto angosciato di Servillo ben rende il peso che questo personaggio continua a portare con sé nonostante lo scorrere del tempo, quello che Rosario si è lasciato alle spalle finirà inevitabilmente per travolgerlo. La scelta poi di ambientare una vicenda così fortemente italiana in un’altra nazione europea è un modo per universalizzare un dramma che Cupellini espande all’umanità in generale. L’attenzione non è infatti solo posta sul tormento del camorrista ma sulle problematiche inerenti a quel processo di spersonalizzazione e ri-radicalizzazione che egli attua su di sé. Se le modalità di trattazione del soggetto possono apparire interessanti, non si può certo tralasciare la mancanza di originalità di quella che appare come l’ennesima pellicola, con il solito Servillo nella parte del mafioso, del filone criminale tanto in voga in patria che fossilizzatosi intorno ad una seria di autori e attori, non fa altro che ripetersi riproponendo storie con meccanismi che differiscono tra di loro di poco o più.