Alla 67° Mostra del cinema di Venezia era stata la Miral (Freida Pinto) di Julian Schnabel a dover affrontare il suo personale conflitto culturale e sentimentale sullo sfondo dello scontro israelo-palestinese. Al Festival internazionale del film di Roma è stata invece Najla (Morjana Alaqui), protagonista de I fiori di Kirkuk, a dover combattere per un amore impossibile durante il brutale regime di pulizia etnica attuato da Saddam Hussein. È il 1988 quando Najla, una giovane dottoressa irachena laureatasi presso un’università romana, decide di far ritorno a Baghdad con la speranza di ritrovare il suo amico e collega Sherko (Ertem Eser) tornato in patria da tempo per aiutare i ribelli curdi. Guardata con indignazione dalla famiglia che non vede di buon occhio la sua occidentalizzazione e sofferente per il clima repressivo messo in atto dall’esercito nei confronti della popolazione curda, Najla tenta prima di aiutare i ribelli insieme a Sherko poi, scoperta soprattutto a causa del suo spasimante, il generale Mokhtar (Mohamed Zouaoui), entra a far parte della guardia medica militare in modo da collaborare tacitamente con i sovversivi. I fiori di Kirkuk, tratto dall’omonimo romanzo dello stesso regista Fariborz Kamkari, è una drammatica storia d’amore resa tragica dalla complicata situazione bellica medio-orientale e da un retaggio culturale difficile da comprendere e accettare soprattutto dopo essersene distaccati. Girato nei luoghi in cui si sono effettivamente svolti gli eventi, il film ruota principalmente attorno alla figura di Najla che si trova a dover affrontare le conseguenze di chi decide di scegliere della propria vita non seguendo le regole previste dalla società di appartenenza. Dal momento che la ragazza abbandona la classe degli aggressori ai quali appartiene e si schiera fra le vittime finisce ben presto per assumerne anche le condizioni. In una narrazione circolare che ha le fattezze tipiche del romanzo storico, le prime immagini che si vedono sono quelle dei servizi giornalistici che mostrano l’abbattimento delle statue di Hussein e la fine della guerra in Iraq, ad esse segue poi la ricostruzione del genocidio programmato dal dittatore iracheno vissuto a ritroso attraverso gli occhi dei protagonisti: una ricostruzione che descrive l’oriente con un taglio però prevalentemente occidentale. Se le disavventure del triangolo amoroso Sherko-Najla-Mokhtar sono abbastanza coinvolgenti, l’equilibrio fra il fattore sentimentale e quello storico non appare ben delineato, cosicché alla fine non si comprende bene quale sia il pretesto per parlare dell’altro. Nonostante la sensibilità della regia, la bella fotografia e una apprezzabile colonna sonora, quello che manca è la forma, ovvero una realizzazione gradualmente intensa del dramma che possa rendere epica la vicenda: l’amore fra Najla e Sherko è palese e dolorosamente comprensibile, ma risulta scarna a livello emozionale, allo stesso modo del respinto ma perdutamente innamorato Mokhtar. A dispetto di questi difetti strutturali, I fiori di Kirkuk rimane comunque un film che affronta una questione poco frequentata, a tratti del tutto ignorata, del cinema contemporaneo.