Il titolo originale è Vanishing point, letteralmente “punto di fuga”, il che non è un caso dato che Punto zero è esattamente questo: una disperata fuga ribelle nel tentativo di sfuggire alla società moderna; un inno alla libertà, al pacifismo e alla controcultura post-Woodstock. «Come on and sit here by my side, come on and take a free ride» cantava Edgar Winter in quello stesso periodo, e Punto zero racchiude lo stesso messaggio. Un uomo, una macchina, una strada; non serve altro per rendere al meglio sullo schermo l’anima dei ’70. L’uomo è Kowalski (Barry Newman), ex-pilota sportivo, ex-poliziotto, ora solo un cavaliere solitario che non ha nulla da perdere salvo la brama di provare ancora una volta le brezza di sentirsi davvero vivo. L’auto è una Dodge Challenger bianca, con motore 440 (che da questo film in poi verrà osannata e glorificata da numerosi registi non ultimo Quentin Tarantino, che nel suo segmento di Grindhouse ha voluto spingersi al di là del mero omaggio). La strada è quella deserta e rovente dell’East Coast americana, una lingua di asfalto che si snoda tra quegli stessi scenari in cui avevano imperversato, cent’anni prima, indiani e cowboy. Kowalski lavora per una compagnia di trasporti d’auto a Denver, Colorado, e quando si trova per le mani una Dodge Challenger scommette con un amico che riuscirà a portarla a San Francisco, California, in meno di 15 ore. Il regista, Richard Sarafian, racconta la storia per immagini, riducendo all’osso i dialoghi, usando tanta musica rock e ancor più suggestioni visive: le inquadrature che sfrecciano sulla strada o che si perdono a volo d’aquila nel deserto sono al limite del documentaristico e sottolineano l’impotenza dell’uomo a confronto con la maestosità del deserto. Dal punto di vista narrativo/concettuale, il film non aggiunge nulla di nuovo al panorama, inframezzando la storia con vari flashback che danno spessore al personaggio di Kowalski e gli donano un’aurea da moderno cavaliere solitario: un borderliner della società pronto a tutto pur di raggiungere il suo obiettivo (in questo caso la vittoria della scommessa). La sua fuga riflette l’intramontabile sogno di riuscire a combattere il mondo alla ricerca del proprio individualismo anarchico e la capacità/volontà di ribellarsi a una società costrittiva che ingabbia l’individuo in celle di regole e divieti. Utopico sogno di molti giovani, ora come allora. Ne è un esempio la crescente popolarità delle gesta di Kowalski che, quanto più la polizia tenta di tarpargli le ali, quanto più la gente ne decreta l’ascesa a “ultimo possibile vero eroe americano”. Nonostante i cliché tipicamente seventies (il libertismo e l’emancipazione sessuale, la sensazione di libertà regalata da paradisi artificiali che rendono labile il confine tra ciò che è e ciò che si vorrebbe), Punto zero trascese la mera etichetta di road-movie imponendosi subito come pellicola-manifesto della controcultura di quegli anni. Un Easy rider su quattro ruote; un Thelma & Louise al maschile; uno Zabriskie point più estremo e sboccato. Un cult generazionale che nonostante abbia sulle spalle quasi trent’anni, ancora oggi respira un’attualità che molti film contemporanei non riescono a trasmettere.