“Un film sulla resistenza in forma di favola” dice il Morandini di questo splendido Zoe, aggiungendo subito dopo: “non si era mai visto”. “Un Alice nel paese delle non meraviglie” lo descrive Varlotta, riportando l’attenzione dello spettatore dallo sfondo politico alla vera essenza del film, la forza vitale di pazzia (Dado) e sogni in un mondo non ideale, e rievocando, forse inconsciamente, un altro simile mondo delle non meraviglie, quello dipinto da Louis Mallé nell’inquietante Luna Nera. La pellicola, primo lungometraggio di Giuseppe Varlotta, descrive il viaggio di Zoe alla ricerca del padre, un eroico capo partigiano, mentre il suo paese è stato attaccato da soldati nazisti che hanno portato la morte agli uomini e la disperazione a donne e bambini. Nel viaggio la piccola incontrerà vari personaggi, tutti in situazioni limite che li portano all’esposizione della loro più profonda natura, dando allo spettatore interessanti visioni del mondo e mettendo ogni volta Zoe a ridiscutere se stessa e le sue idee. Non ci si faccia dunque ingannare dall’ambientazione, le preoccupazioni politiche sono probabilmente estranee a Varlotta; i cattivi nazisti null’altro che incarnazione della malignità e spietatezza umana in un dato contesto storico; il partigiano Luigi il simbolo di un’etica manichea quanto ingenua; il brigante Bebo Storti tutte le seduzioni dell’amoralità, non per forza cattiva ma sicuramente ambigua e pericolosa. E questo scavo interiore - piuttosto apolitico – è molto felice anche nella resa di altri personaggi come il principe, manifesto del fallimento dell’aridità affettiva propria di una vita estetica dedita ai piaceri (ma anche il ritrovo in extremis di una comunanza nella solitudine con un vecchio in miseria) o come il folle Dado, che è l’immensa energia vitale dei giochi allegri di fantasia, follia e sogno, capaci di risuscitare i morti e di ritingere di vita ciò che la morte aveva reso più nero che mai. Ciò che trae la piccola Zoe da questo viaggio è una dura ed efficace iniziazione alla vita, una violenta crescita che la porta dal suo idealismo infantile, che mai permetterebbe che il suo cane fosse usato per riempire lo stomaco, fino ai più maturi e aspri compromessi dell’esistenza, che nella pietà per il prossimo le fanno suggerire spontaneamente di usare la carcassa del cane come cibo. Il tutto lasciando intatta la sua purezza, che pur accettando le questioni materiali e di stomaco, non può nel clima di dolore, ma anche solidarietà, che si crea tra gli sventurati rinnegare i valori dell’interiorità e dell’affettività (cfr. la grande importanza data ai riti della sepoltura). Un gran film dunque, grazie anche alle buone interpretazioni degli inesperti attori, e all’atmosfera sognante e in comunione con la natura che Varlotta ha saputo infondere nel film, soffermandosi spesso su incantevoli immagini e paesaggi da favola. La pellicola, inoltre, anche essendo di pregevole fattura non è certamente intellettualistica o apprezzabile solo dai soliti happy few: sulle corde dell’empatia potrebbe infatti gustarla appieno anche tutta quella parte del grande pubblico che, pur solo per una novantina di minuti, riuscisse ad allontanarsi dalla caotica volgarità moderna.