
Il destino non è mai stato molto clemente con Bazil (Dany Boon), reso orfano di padre a causa dell’esplosione di una mina in Marocco e colpito da adulto da un proiettile vagante che gli si è conficcato nel cervello. All’ospedale i medici non se la sentono di praticare l’estrazione, così Bazil viene dimesso con un pezzo di metallo ancora intatto nel cranio e come se non bastasse si ritrova senza casa e senza lavoro. Per un breve periodo tenta di sopravvivere per strada, chiedendo l’elemosina e improvvisando intrattenimenti per i passanti, poi fortunatamente viene accolto da una banda di rigattieri che abitano in una sorta di casa-caverna costruita con materiale raccattato qua e là. Sono sette, come i nani: Tambouille (Yolande Moreau), La Môme Caoutchouc (Julie Ferrier), Fracasse (Dominique Pinon), Remington (Omar SY), Calculette (Marie Julie Baup), Petit Pierre (Michel Cremades) e Placard (Jean Pierre Marielle), tutti con doti e abilità diverse e sorprendenti. Un giorno, mentre cammina per strada, Bazil passa attraverso due enormi palazzi e riconosce il logo dei fabbricanti di armi che gli hanno provocato tante sofferenze, aiutato dalla stravagante combriccola decide dunque di vendicarsi e per farlo escogiterà i piani più ingegnosi e strampalati. «Quando montavamo 'La città perduta', a Saint Cloud, vicino alla fabbrica della Dassault, andavamo spesso in un ristorante dove pranzavano anche gli ingegneri della Dassault. Erano degli uomini molto formali, vestiti in giacca e cravatta, avevano dei bei visi, ma non potevo evitare di pensare che stavano creando e costruendo delle armi incredibili per distruggere e uccidere altri esseri umani! Non sembravano minimamente toccati dall’idea! Ero molto colpito e scioccato per questa cosa. Allo stesso tempo, non volevo fare un film intellettuale, volevo fare una commedia. E cosa avrebbe potuto essere più diverso dai costruttori di armi dei rigattieri?» Jean-Pierre Jeunet racconta l’idea dalla quale è nato il suo sesto lungometraggio, Mic Macs à tire larigot in riferimento all’espressione francese “boitre à tire larigot” che è un incitamento a far uscire il vino dalle bottiglie così come si fa uscire il suono dagli strumenti e che si presta bene a rappresentare lo spirito del film. Una pellicola altamente cinefila a partire dai titoli di testa in falso vecchio stile bianco e nero, alle innumerevoli citazioni di classici come Il grande sonno e Casablanca; ai tanti riferimenti alle pellicole di Sergio Leone e Charlie Chaplin, e poi Mission impossibile, Tex Avery e Toy story. A metà strada fra Il favoloso mondo di Amélie e Delicatessen, L’esplosivo piano di Bazil è un condensato delle passioni di Jeunet sempre distintosi, insieme a Luc Besson, per aver attuato una restaurazione in chiave spettacolare della vecchia scuola cinematografica francese. Nella resa delle periferie parigine e in particolar modo di casa Tire Larigot viene chiaramente fuori l’artigianalità della natura di illustratore e scenografo del regista che si diverte a creare un mondo formalmente più favolistico che reale, mescolando stili e architetture di epoche diverse, giocando con colori ed effetti visivi a cui contribuisce la fotografia del giapponese Tetsuo Nagata (La vie en rose, La chambre des officiers). Recitazione e tempi comici, degni della migliore tradizione slapstick, sono senza dubbio perfetti grazie anche all'ottimo cast e ad un Dany Boon reduce del successo di Giù al Nord, caratterista perfetto e completamente dentro il ruolo di ingenuo uomo-bambino. I problemi semmai sonno inerenti alla ritmicità della storia, alle volte eccessivamente dilatata e che tende a ripetersi in sequenze che appesantiscono la struttura narrativa rendendo a tratti la visione tutt’altro che esplosiva. Per questi motivi, nonostante Jeunet abbia realizzato una buona pellicola, non è ancora di certo riuscito a doppiare il successo e la sognante bellezza di Amélie.