Il regista americano Richard J. Lewis gioca d’azzardo e dopo nove stagioni della serie televisiva C.S.I. si misura con la trasposizione cinematografica di uno tra i romanzi più amati dell’ultimo decennio: La versione di Barney. Abbandonando la propria sceneggiatura, in favore di quella elaborata da Michael Konyves, Lewis sceglie una regia soffice e di compromesso. Hollywood è Hollywood (anche se in una produzione italo-canadese) e la patria del cinema ha le sue leggi, i suoi comandamenti e i suoi stereotipi (valga come esempio il ritratto “molto pittoresco” che il film compie sugli italiani). Della pluripremiata opera di Mordecai Richler, in verità, resta poco, o meglio rimangono il personaggio di Barney Panofsky, seppure temperato e totalmente addolcito ed i capitoli essenziali della sua esistenza. Non era un’impresa facile portare sul grande schermo la vita tragicomica e i contrasti del protagonista. Panofsky, ebreo canadese, dall’intelligenza arguta e caustica, nel giro di quattro decadi diventa un produttore televisivo di successo, è contornato da amici folli e affascinanti, è sostenuto da un padre irriverente e irresistibile, si sposa tre volte, ma si innamora davvero soltanto una. La sceneggiatura, avvalendosi di flashback estremamente efficaci, ripercorre l’esistenza del protagonista fino all’irruzione del dramma e della tragedia. È in questo frangente che l’asse emozionale della pellicola si sposta totalmente sulla malinconia, colorando di tristezza la miscela di humour e passione (amorosa, affettiva e locutoria) che tesse l’intero film. La versione di Barney si condensa a poco a poco intorno alla storia d’amore tra Panofsky e Miriam (la terza moglie). Peccato però che del romanzo di Richler manchino le appetitose divagazioni e i gustosi sconfinamenti dalla trama. D’altronde, non era semplice concentrare l’opera letteraria in due ore di film, mantenendone l’architettura da un lato e il carattere eversivo dall’altro. Il sarcasmo mordace del libro è diluito nell’accomodamento edulcorato del cinema rivolto al grande pubblico. Detto questo, la trasposizione cinematografica di La versione di Barney, in concorso nella 67esima edizione del Festival di Venezia, è godibile e piacevole. Le interpretazioni sono grandiose. Paul Giamatti conferisce a Panofsky le sfaccettature necessarie ad evidenziarne l’umanità complessa e contraddittoria, pareggia Dustin Hoffman, nel ruolo del padre del protagonista, a cui sono riservate le battute più trascinanti e la comicità più immediata. Bravi: Rosamund Pike (Miriam), Minnie Driver (Seconda Mrs. Panofsky) e Scott Speedman, nelle vesti di Boogie, l’amico eccessivo e talentuoso.