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La donna che canta

18/01/2011 11:00

Emidio De Berardinis

Recensione Film,

La donna che canta

Come la crudeltà infetta il seme dell’amore

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Il segreto del silenzio che ha preceduto le ultime settimane di vita di Nawal (Lubna Azabal) è racchiuso nel testamento che il notaio Jean Lebel (Remy Girard) legge ai due figli della misteriosa donna: i gemelli Jeanne (Melissa Désormeaux-Poulin) e Simon (Maxim Gaudette). Le ultime volontà di Nawal sono di consegnare due buste, una, per mano di Jeanne, al padre, che i due ragazzi credevano morto da tempo, l’altra, per mano di Simon, ad un fratello di cui ignoravano l’esistenza. Jeanne decide di partire subito per il Medio Oriente alla ricerca della verità, mentre Simon, che vede nel testamento della madre l’ultima stranezza in una vita di misteri e di assenze, la raggiungerà in seguito con lo scopo di ricondurla a casa. I due gemelli si ritroveranno presto in un mondo lontano, a pedinare il passato, scoprendo una Nawal inedita, coraggiosa e martire, completamente diversa da quella che era sempre stata la loro madre. Aiutati dal notaio Lebel, i due ragazzi faranno luce sulla loro origine, macchiata dal sangue e dall’orrore della guerra, dei fanatismi religiosi e politici, e iniziata nell’amore a cui l’esistenza difficile in una terra così diversa, ha presto tagliato le ali.


La donna che canta inizia con una morte. Da questo primo tassello che cade in un effetto domino inarrestabile, inizia la ricerca dei due gemelli sulle origini misteriose della loro madre e con lei della loro genesi. Con la morte di Nawal si generano inoltre due storie parallele, quella di Jeanne e Simon in una terra lontana cosparsa di cicatrici, che nasconde un orrore senza uscita e senza tregua, e quella della stessa Nawal: il passato può scorrere per la prima volta sull’asse del tempo, lontano dal rimosso. Inizia così una storia incredibile, che non lascia respiro a personaggi e spettatori, in una curiosità necessaria e dolorosa che inchioda, fino all’ultima verità svelata, gli occhi allo schermo. Le vicende si svolgono in un’ imprecisata località del Medio Oriente, ma i continui riferimenti alla guerra, alle rappresaglie tra Partito Cristiano Nazionalista e la presenza armata arabo palestinese lasciano pensare al Libano. Il film di Villeneuve, tuttavia, non vuole essere tanto un film politico, quanto un ritratto in cui la politica e i fanatismi assediano la vita dei cittadini che si trovano bruciati, «scorched» (come il titolo assegnato alla pellicola nella versione inglese), un «Incendies» che cancella esistenze e le trasforma, crea identità e le cela.


Tratto dall’opera teatrale del libanese Wajdi Mouawad, La donna che canta è una scia di crudeltà che infetta il seme dell’amore, nasce dalla violenza della situazione medio-orientale, per approdare in una apparentemente tranquilla cittadina canadese, che come da rimbalzo riporterà i suoi protagonisti a casa, un posto in cui i fantasmi convivono con i vivi, nei luoghi e nei cuori di chi è rimasto. Una sottile e dolce melodia sussurrata si farà strada tra le dolorose ceneri, per ammaliare il cuore, dopo che il finale, come un’ossessione, traumatizzerà per sempre la sensibilità dello spettatore.


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