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127 Ore

20/01/2011 12:00

Tania Marrazzo

Recensione Film,

127 Ore

Dopo lo strepitoso successo di The Millionaire, vincitore di otto premi Oscar, tornare al cinema ha costituito una bella responsabilità per Danny Boyle viste le

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Dopo lo strepitoso successo di The Millionaire, vincitore di otto premi Oscar, tornare al cinema ha costituito una bella responsabilità per Danny Boyle viste le aspettative createsi intorno ad un regista che nell’ultimo decennio si è distinto con pellicole come The beach e 28 giorni dopo, senza tralasciare il fortunato Trainspotting del 1996. Operando un totale cambio di rotta Boyle esce fuori dall’atmosfera corale delle chiassose e colorate strade di Mumbai per gettarsi in un progetto che medita sulle vicende reali accadute ad Aron Ralston, concentrandosi dunque esclusivamente sul percorso pseudo-esistenziale di un unico personaggio all’interno di un ambiente ristretto e che per buona parte del film rimane unico.


Ispirato al romanzo Between a Rock and a Hard Place dello stesso Aron Ralston, 127 Ore racconta l’incredibile storia vera vissuta da quest’uomo, nella vita ingegnere, ma con una fortissima passione per le escursioni tanto da conoscere percorsi e pareti rocciose a memoria. Un venerdì sera dell’aprile 2003 Aron (James Franco) decide di partire per lo Utah per trascorrere un weekend solitario fra le bellezze del selvaggio Canyonlands National Park, ma mentre esplora il territorio scivola in un insenatura e rimane bloccato a causa di un enorme masso che gli schiaccia la mano. Con cibo insufficiente, scarsezza d'acqua e pochi arnesi a disposizione, fra cui la sua inseparabile videocamera, inizierà da quel momento una lotta per la sopravvivenza che lo porterà anche ad una maggiore conoscenza di se stesso.


Danny Boyle riprende la vicenda di Ralston imprimendogli la sua solita marca stilistica, quella regia da videoclip, ritmica anche laddove la norma, come nel caso dei paesaggi naturali, predilige la lentezza, mai statica nemmeno quando deve muoversi all’interno di un’insenatura di pochi metri per più di un'ora. Le 127 ore che Aron passa costretto in quel canyon gli cambiano la vita, la solitudine e la condizione estrema nella quale si trova lo portano a sperimentare una serie di stati d’animo mai avvertiti prima e lo gettano col passare del tempo in una condizione allucinata che gli permette però di scavare a fondo dentro di sé. Colui che, grazie a spiccate doti fisiche e mentali, aveva sviluppato un individualismo tale da essere convinto di poter bastare completamente a se stesso, comprende adesso, nel momento di massima solitudine, quanto sia importante la condivisione e l’affetto degli altri e reagisce proprio in virtù di questo desiderio. Per rendere visivamente tale processo il regista si è avvalso della collaborazione di due direttori della fotografia Anthony Dod Mantle ed Enrique Chediak, in modo che la contrapposizione fra le sensibilità tipicamente sudamericana del primo e lo stile nordeuropeo del secondo, rappresentassero visivamente il cammino intrapreso da Aron che verte sempre più verso una dimensione intimista e meno naturalmente universale. Eppure, nonostante il film riesca a mantenere viva l’attenzione per tutta la sua durata e la prestazione di Franco sia del tutto apprezzabile, 127 Ore non colpisce fino in fondo. L’eccessivo tecnicismo e la concentrazione sul dettaglio rendono gratuite alcune scelte e immagini che seppur suggestive non rimangono impresse ai fini della vicenda. L’inevitabile immedesimazione dello spettatore funziona più dal punto di vista fisico, tramite lo strazio corporeo vissuto dal giovane (incrementato da una sequenza particolarmente forte), che psicologico, l’elemento che dovrebbe essere prediletto. Nonostante gli sforzi, Boyle rimane in superficie non riuscendo a sprofondare nelle viscere più remote di una storia che ha la sua maggior valenza nel suo significato esistenziale.


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