Renato Vallanzasca è una figura simbolo di uno dei periodi più cupi della storia d’Italia, un’epoca che trova nel film di Michele Placido, Vallanzasca – Gli angeli del male, una cronaca romanzata di qualità superiore alla media, per quanto forse apparentemente discutibile sul piano dei giudizi morali che da essa possono essere desunti. Il regista presenta immediatamente il protagonista come un duro, un coraggioso sprezzante del dolore e delle conseguenze del suo agire, cresciuto nella convinzione che ci sia una sorta di ineluttabile destino che conduce gli uomini a seguire il proprio determinato percorso, un destino per il quale, ad esempio, chi nasce per essere guardia non potrà fare a meno di scontrarsi con chi nasce criminale. Vallanzasca è uno dei più rappresentativi esponenti proprio di questa seconda classe di persone: un rapinatore, sequestratore, pluriomicida e pluri-evaso, la cui vita, un percorso ciclico di accumulo e distruzione, si è consumata in un continuo alternarsi fra la strada e la galera. Intorno alla figura del criminale milanese, interpretato da un Kim Rossi Stuart che si conferma uno dei migliori talenti che la nostra cinematografia può vantare, Placido ha costruito un poliziesco di grande spessore, capace di discostarsi tanto dal patinato gangster movie all’americana quanto dalla fiction all’italiana, seguendo un percorso per certi aspetti simile a quello intrapreso con Romanzo Criminale, ma estremizzato al limite della celebrazione apologetica e al contempo costruendolo come una sorta di distorto documentario su un’epoca. Se infatti la storia del bandito risulta certamente interessante, e la sua stessa figura, anche grazie a Rossi Stuart, emana un fascino e un carisma cui è difficile opporsi, l’apprezzabilità della pellicola è da attribuirsi principalmente alle scelte registiche, ad una fotografia molto coerente con l’immagine e il ricordo degli anni ’70-‘80 e al dinamismo di un montaggio serrato e veloce, mentre la sceneggiatura si rifà in modo piuttosto coerente alla documentazione storica esistente rispetto ai fatti narrati, e al libro che Vallanzasca ha scritto insieme al giornalista Carlo Bonini. È il piano del valore morale che suscita più perplessità in merito alla chiave di lettura da adottare per accostarsi a questo film: sebbene l’uomo sia atavicamente attirato dal proprio lato oscuro e non sia infrequente che personaggi capaci di opporsi in modo forte alla legge e all’ordine vigenti divengano figure mitiche e suscitino desiderio di emulazione, nel film di Placido queste dinamiche sono portate all’estremo. Emerge dalla descrizione di Vallanzasca un uomo quasi incolpevole, una vittima delle circostanze molto più che l’artefice diretto della rovina propria e dei tanti che non sono sopravvissuti incontrandolo. La ricostruzione storica, fedele nei termini cronologici e cronachistici, nel momento in cui racconta il successo e l’ammirazione che Vallanzasca seppe suscitare in ampie sfere dell’opinione pubblica sembra quasi farsi portatrice di una critica della società, piuttosto che del proprio elemento deviante: sono le “perverse fantasie delle casalinghe”, come dice lo stesso Rossi Stuart/Vallanzasca, e uno Stato che affida ad ingenui, ad inesperti e a corrotti la gestione della propria sicurezza, ad aver permesso a Vallanzasca di emergere e, tutto sommato, di risultare un puro, una persona capace di tener fede ai propri, discutibili, principi di vita con “criminale coerenza”. Quanto questo corrisponda realmente allo spirito di quegli anni e quanto sia rispettoso di chi nel concetto e negli ideali di quella società ha creduto e crede non sta a noi dirlo, ma indubbiamente il film di Placido acquista valore anche per il dubbio che insinua, perché spiazzando l’impostazione valoriale e morale dello spettatore, riesce ad imporgli una seria riflessione su di essa.