Un omicidio dagli indizi mostruosi e soprannaturali convince l’indagatore dell’incubo a mettere da parte le indagini da detective privato al soldo di mogli e mariti gelosi per tornare ad occuparsi del suo campo di competenza. Sparare su un prodotto come Dylan Dog equivarrebbe ad aprire il fuoco contro la croce rossa. Levato il dente e, fermo restando l’assoluta e indifendibile mediocrità di fondo dell’operazione tutta proviamo, svestendo a malincuore i panni di fan del fumetto, a capire cosa non ha effettivamente funzionato nell’intuizione balenata, tra le altre, nella mente di Scott Mitchell Rosenberg: produttore della pellicola e presidente della Platinum Studios, uno che di narrazione per nuvole dovrebbe intendersene se è vera, com’è vera, la piena proprietà di quest’ultimo di una tra le più vaste librarys indipendenti sui personaggi di fumetti, al fine di trarne adattamenti cinematografici. In cima alla lista degli errori un posto di rilievo lo merita il controllo remoto del film, affidato in cabina di regia al semiesordiente Kevin Munroe (al suo attivo soltanto TMNT, reboot incentrato sulle avventure delle Tartarughe Ninja) e in sede di sceneggiatura ai superficiali Thomas Dean Donnelly e Joshua Oppenheimer (autori di Sahara e del remake di Conan il barbaro), un trio che, vuoi per ignoranza, vuoi per presunzione o per semplice dabbenaggine, ha deliberatamente travisato senso, immaginario e psicologia del celeberrimo personaggio partorito ormai 25 anni fa dall’immaginazione di Tiziano Sclavi. Passi per il traumatico quanto in fin dei conti digeribile stravolgimento di location (da Londra a New Orleans, luogo che solo a nominarlo evoca richiami ectoplasmici) e per la prevedibile assenza del fido assistente Groucho (insormontabili problematiche burocratiche con gli eredi “Marx”); tutto il resto è da buttar via. Perché? Semplice: Dylan Dog non può avere la corporatura palestrata di un Brandon Routh né venir presentato allo spettatore come un incrocio tra Sam Spade e Mike Hammer, il suo mondo originale rappresenta il retaggio culturale di un creatore che ha saputo mescolare al suo interno rimandi poetici (Dylan Thomas), cinefilia, passione per letteratura di genere, storia dell’arte e musica, al fine di donare riuscita originalità popolare a quella che deve essere considerata come una vera e propria icona. Di fronte a tale scempio urge rispolverare un certo patriottismo, lo stesso sentimento che non può permettere di far passare un frullato adrenalinico e a tratti testosteronico, miscelato alla meno peggio in uno sgabuzzino dove sono stati accantonati i mostri di gomma e gli artigianali effetti anni ’80. Questo Dylan Dog è il risultato malato e frainteso, frutto di una frivola rilettura americana di un’opera su carta che, pur guardando con ispirazione alla cultura a stelle e strisce, ha sempre mantenuto un’anima e un’impronta squisitamente europea, certamente troppo sottile ed elaborata affinché non venisse travisata in pieno una volta trasportata oltreoceano, destinata, da profondo fumetto, alla superficiale trasformazione in fumettone per il grande schermo; una pellicola che vorrebbe essere Grosso guaio a Chinatown (non ce ne voglia John Carpenter), salvo trasformarsi ben presto in un modesto crossover sparatutto tra Underworld e Zombieland capace, come unico spunto d’interesse, di offrire una sola fonte d’attrazione: il divertente outlet per parti di ricambio destinate ai non morti. Guardi questo Dylan Dog e rimpiangi il tanto vituperato Dellamorte Dellamore. Lì, almeno, c’era un’ingenua quanto sincera passione per la materia trattata. Qui appena una sequenza che valga la pena d’essere vista: quella d’apertura.