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Una vita nel mistero

09/04/2011 10:00

Marco D'Amato

Recensione Film,

Una vita nel mistero

Primo lungometraggio per il giovane regista sipontino Stefano Simone: se i suoi cortometraggi precedenti ripercorrevano il filone thriller/horror, con Una vita

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Primo lungometraggio per il giovane regista sipontino Stefano Simone: se i suoi cortometraggi precedenti ripercorrevano il filone thriller/horror, con Una vita nel mistero Simone vira sul drammatico, venato comunque da sfumature sovrannaturali che avvicinano maggiormente questo lavoro a quelli precedenti. In primis, bisogna tributare un applauso al regista per aver avuto il coraggio di puntare su una tematica difficilissima come quella religiosa, irta di ostacoli e trabocchetti: un argomento che, se gestito male, può facilmente scadere nel sensazionalismo tout-court. Fede e miracoli sono argomenti da trattare con i guanti se non si vuole passare da esaltato o da ingenuo e Simone ci riesce egregiamente, senza ricercare la lacrima facile.


Il film, interamente girato a Manfredonia e dintorni, si ispira alle vicende realmente accadute di una coppia di mezz’età, Angelo (Tonino Pesante) e sua moglie Antonietta (Dina Valente). Lei ha un tumore e pochi mesi di vita, lui passa le sue giornate pregando Padre Pio, del quale è devotissimo, per un miracolo. La vita dei due coniugi viene presto sconvolta da visioni sovrannaturali, strane apparizioni e incubi a sfondo mistico-religioso.


Il film si può dividere in due parti che si compenetrano di continuo: una parte riguardante la normale vita coniugale di Angelo e Antonietta, tra visite mediche e lunghe passeggiate, e una parte che si sofferma sui numerosi inserti extraterreni della vicenda. Se la prima può risultare a volte stucchevole, a causa di una recitazione amatoriale e di scene decisamente da fiction, molto più riuscita è la seconda, ben girata, con un montaggio accurato e una colonna sonora (di Luca Auriemma) davvero inquietante e azzeccatissima. In particolare la scena dell’incubo di Angelo e le varie apparizioni dell’incappucciato centrano in pieno l’obiettivo. Bella anche l’idea di fare della macchina fotografica di Angelo una specie di portale per rendere “reali” le strane figure che continuano a manifestarsi ai suoi occhi - anche se a volte appaiono decisamente forzate (la macchia di caffè a forma di cuore). Intriganti poi le immagini del lungomare e del paesaggio di Manfredonia, splendido e assolato ma carico di mistero, che ricorda parecchio quello della Bassa Padana di Pupi Avati in pellicole come La casa delle finestre che ridono o Zeder. Un lavoro sicuramente interessante che fa ben sperare per il futuro.


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