
Una giovane ragazza di nome Kristen viene improvvisamente presa di forza e condotta in un'ospedale psichiatrico dopo aver dato fuoco a una casa. All'interno del proprio reparto trova altre quattro ragazze, detenute anch'esse per infermità mentale. La memoria di Kristen è molto frammentaria e vengono alla luce solo dei brevi flashback alquanto scabrosi, che complice anche il ripetuto assillo di una misteriosa presenza la inducono a cercare ripetutamente la fuga. Il personale dell'edificio e le quattro compagne sembrano però conoscere molto più del necessario sul passato dell'ospedale e sul mistero che aleggia su di esso. Tutto appare in qualche modo collegato. Ripresa in mano dopo un decennio la macchina da presa, John Carpenter è ormai all'ennesimo thriller gore, per la prima volta nella sola veste di regista. Sebbene sia considerato da molti uno dei grandi progenitori del genere splatter, l'ideatore di Jena Plissken e de La Cosa si è distinto più volte per aver proposto nelle sue opere una buona dose di varianti stilistiche che pescano a piene mani dal cinema fantascientifico, in parte western e persino dalla letteratura cimiteriale; andando a costruire la fortuna dei propri crudi effetti speciali su stilemi e tematiche già collaudate e fortunate. Non vanno dimenticate poi grandi eccezioni alla regola, come il sentimentale Starman; quasi in grado di commuovere con lo straordinario Jeff Bridges nella parte di un alieno antropomorfo, che all'epoca stupì qualsiasi fan o mero conoscitore del regista, viste anche le premesse sci-fi e vagamente catastrofiste dello stesso film. Non da meno può essere considerata una sorta d’innovazione nella carriera di Carpenter quest'ultima opera; se non sotto il profilo prettamente estetico, quantomeno come sfruttamento di una componente introspettiva e nevrotica messa più in luce, che va decisamente oltre le superficiali percezioni di solitudine e follia ne La Cosa. Lo spettatore viene subito catapultato nelle fobie della protagonista e vive in prima persona le sue vicissitudini, senza conoscere gli accadimenti precedenti. Le atmosfere surreali e lugubri che hanno da sempre contraddistinto i vecchi titoli sono coadiuvate da un ulteriore alone di mistero che impregna la serie di eventi. Dominatore della scena è solo l’intreccio principale, con le claustrofobiche vicende delle pazienti a essere protagoniste. A differenza del passato, i ritmi sono insolitamente piuttosto lenti e manca la consueta dose di adrenalina – una scelta come probabile dettata dal tentativo di avvicinarsi a delle cadenze più vicine a quelle di un horror classico, magari nelle intenzioni della produzione. Tornano dunque gli immancabili brividi improvvisi dopo momenti di calma apparente e le tradizionali ondate di disgusto; tra torture, lacerazioni e sangue a profusione. Mai come in questo caso Carpenter pare però calibrare col contagocce le scene più cruente, attingendo a quella matrice più psicologica tipica degli horror orientali di fine millennio. Le sembianze della creatura sovrannaturale non fanno poi che annullare del tutto questa casualità, rimandando più volte a The Ring. Se la continua sensazione oppressiva di morte imminente potrebbe ricordare neanche troppo velatamente Final Destination, è inevitabile non fare un accostamento col recentissimo thriller psicotico Shutter Island, nonostante il tasso di smarrimento e perdizione presenti nella pellicola di Scorsese raggiunga apici più elevati. Ce n’è un po’ per tutti i gusti dunque, ma sebbene effetti speciali e sentenze capitali non facciano impazzire stavolta – seppur ben centellinate ai fini del film – e gli “omaggi” siano fin troppo numerosi, sarebbe comunque ingiusto parlare di copiaticcio e non di gradevole rielaborazione; da inserire come ulteriore tassello nella carriera di un artista che dimostra qui di saper essere a suo agio anche con materiale più diversificato e moderno.