Due sguardi si incontrano, si sfiorano, si fondono. La macchina da presa si avvicina e segue emotivamente e fisicamente questo randez-vous di sentimenti, di dolori, di percorsi apparentemente distanti, ma in realtà decisamente affini. Massimo Coppola esordisce nel mondo della settima arte e lo fa con la stessa disinvoltura e abilità mostrata nei suoi documentari. Una ricerca del realismo che passa per l’astrazione, un linguaggio cinematografico che si dissolve per lasciar spazio all’occhio, alla pelle, alla fisicità, alla realtà più tangibile, lontana dalle illusioni e dagli stereotipi. Lo sguardo di Coppola segue le vicende di due ragazze: Eva (Alexandra Pirici) ed Anna (Erica Fontana). Due protagoniste capaci di sfidare l’oblio in cui si sono ritrovate a vivere. Osservare il buio per poter percepire l’assenza e risalire verso la luce, affrontare il dolore per poterlo superare. Eva è un’operaia di Bucarest, da poco licenziata e pronta ad iniziare un percorso di crescita e formazione che la porterà ad un viaggio verso l’Italia, destinazione Melfi. Qui il suo cammino si incrocerà con quello di Anna, una taciturna lavoratrice nella fabbrica della Fiat, che la ospiterà nella sua casa. Le due ragazze sono in viaggio verso la stessa destinazione: il riappropriarsi della propria vita, guardandosi nel profondo del proprio io, abbandonando le finzioni, le falsità, lasciando alle spalle quella fitta e grigia nebbia in cui si stavano perdendo. Hai paura del buio è dunque un delicato percorso formativo, una ricerca della propria vera essenza, pura; ciò che è stato smarrito dietro alla futilità degli oggetti, la freddezza del denaro. Perché in fondo, come afferma Eva nel film “I soldi non ti abbracciano” e comprano soltanto dolore. Il film ricerca la bellezza degli sguardi, la capacità di potersi osservare e capire, senza maschere, senza ruoli imposti, privi di un copione dettato da altri. Coppola compie tutto questo stravolgendo le regole, con una raffinata scelta registica, che ricalca la Nouvelle Vague di Jean-Luc Godard. Le inquadrature, per lo più realizzate con camera a spalla, creano una forte empatia con i personaggi e ne sottolineano le emozioni più forti. Lo spettatore diventa un tutt’uno con le due protagoniste, vivendone il dolore, i sospiri, i silenzi. Il regista ricorre inoltre a lunghi piani sequenza, il cui montaggio si mescola con le intense musiche dei Joy Division, band simbolo della scena Post Industriale, perfetta colonna sonora delle vicende di Anna ed Eva. La regia di Coppola segue da vicino, ma senza invadere o turbare gli spazi, osservando due percorsi, che si incrociano e diventano un tutt’uno. Alla ricerca dell’Io profondo e della Persona.