Un’estate dei nostri tempi, nella periferia di Roma. Marco (Maurizio Tesei) torna a casa dopo 5 anni di carcere. Qualcosa si inventerà , cercherà una vita normale, lontana dai traffici che ne hanno causato l’arresto. E pensare che ha anche una figlia, ma chi se la ricorda più. Purtroppo però il suo tentativo di emanciparsi dalla realtà che lo circonda è destinato al fallimento. I suoi ex compari Glauco (Simone Crisari) e Mauro (Riccardo Flammini) lo convincono a riprendere a spacciare. Sonia (Ughetta D’Onorascenzo) vorrebbe farci due chiacchiere e, mentre sta andando al lavoro nella bisca di Sergio (Paolo Perinelli), si ferma sulla panchina con lui. Parlano piano, sorridono, ma poi lei deve scappare. Sonia è una studentessa universitaria, volenterosa e convinta di rendersi indipendente, non solo economicamente, dall’ambiente in cui è cresciuta. Lei d’altronde vive sola con la nonna e vuole proprio farcela. Cerca ascolto e comprensione, ma non li trova. Là fuori è davvero un brutto mondo. Faustino (Michele Botrugno), Massimo (Germano Gentile) e Federico (Fabio Gomiero) sono un gruppo di ragazzi legati a doppio filo dall’amicizia, un filo tanto stretto da strozzarli, attirandoli in una serie di eventi drammatici che li esporranno ad una disperata vulnerabilità . Tre storie che corrono vicinissime sul fil rouge della droga e della malvivenza. Poi una collisione le fa intrecciare e una pioggia densa di schegge roventi si porta via ogni speranza di redenzione. Accolta con 15 minuti di applausi al 67simo Festival di Venezia, l’opera prima di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini è un prodotto figlio del giovane ingegno. Vi serpeggia il germe del L'Odio, della vita infernale gonfia di periferia che strizza l’occhio alla banlieue in bianco e nero di Kassovitz. Il serpentone di Corviale trita e protegge le esistenze rimbalzandole nei gironi danteschi dei pianerottoli e dei disimpegni. L’ecosistema delle inferriate, degli spigoli di cemento svettanti e del grigio d’asfalto nutre le vite metropolitane e sbiadite dei suoi abitanti. Esistenze pigre, di reclusione e indigenza. Nell’estate afosa e desolata della periferia le cicale cantano sempre e il mare di Ostia è lontano. Meglio starsene a prendere il sole sui gradoni di cemento infuocato e morire d’accidia. Siamo nella realtà che autoproduce le proprie vittime, che già sanno di marcio, allevandole a cocaina e nullafacenza. Perchè "Se magni, se cammini, se respiri non vor dì mica che sei vivo". Botrugno e Coluccini ficcano il dito nella piaga e sanno come rigirarlo. Raccontano una quotidianità di strappi dolorosi, di marchette e omertà in un contesto insopportabilmente realistico, dalle linee forti e incisive. Nel rogo di punizione finiranno i peccati di tutti, ma un falò di corpi non basterà ad assolverli. Tanto a Marcolino non cambia nulla, lui in galera ci è già stato e ci sta ancora, inchiodato sulla panchina ad osservare senza vivere le vite degli altri. Del resto azione e inazione generano medesimi esiti e tutti i personaggi stanno come mine vaganti a soffrire dello stesso orizzonte angusto pieno zeppo di affanni. E allora tutti i possibili slanci nascono già paralizzati. Nel cielo saturo di nuvole bollenti, non c’è Dio. Non si trova nessuno cui raccomandare la propria esistenza, non ci sono pezzi di ricambio. C’è lo sfascio. Del motorino e dell’esistenza. E non c’è pace in terra nemmeno per gli uomini (pochi) di buona volontà . «'Et in Terra Pax' non è un film sul disagio della periferia romana, o per lo meno lo è solo in parte. Abbiamo scelto di soffermarci sulla psicologia dei personaggi più che sul degrado, sulla disperata ricerca di una direzione da seguire più che sulle ragioni sociali dell’emarginazione. La borgata è il teatro di vicende in cui divengono lampanti da una parte le contraddizioni dell’essere umano e, dall’altra, i rabbiosi istinti di sopravvivenza e la volontà di riscatto». Il merito del film è di affrontare le delicate tematiche di cui tratta a viso aperto, senza ombra di retorica e di farlo evitando di incappare nei canoni logori del genere. La camera può seguire silenziosa i suoi ragazzi di vita, farsi testimone immobile e non giudicante della miseria morale o attaccarsi alla pelle. Restano solo i volti a parlare, la carne, i corpi, la violenza cristallizzata sul cemento. Un’opera senza indulgenza, senza filtro, dalla struttura sobria ed essenziale, lucida e determinata negli intenti, ha l’incedere e il ritmo compatto e moderato della marcia di un soldato e si serve dell’ottimo apporto della fotografia di Davide Manca. La crudezza del taglio e il linguaggio scarno e affilato convivono con la purezza iconografica più assoluta (lo stupro) e con le profonde suggestioni liriche che ci vengono addirittura da Vivaldi. Sviluppato e organizzato da Simone Isola e dalla giovane società di produzione Kimerafilm, Et in terra pax è un film giovane e indipendente. Violento con compostezza. Ineluttabile e ghiacciante. Finalmente.