Nell’ariosa e sconfinata terra di Puglia dell’immediato dopoguerra vive Giordano Ricci (un sorprendente Antonio Albanese), grassoccio personaggio dalla barba ispida e dalla mente labile che si occupa di sminare i campi di Torre Canne. Nonostante il costante pericolo nessuno si oppone a questa sua attività, perché a causa di “certe malinconie passate a cui i medici non hanno saputo trovare rimedio nemmeno con la scossa”, Giordano, da tutti considerato un malato di mente, è ritenuto più sacrificabile di un individuo sano. Vive avvolto in un protettivo gineceo di vecchie zie (le brava Angela Luce e la compianta Marisa Merlini, perfette nella parte delle zitelle apprensive) che gestiscono la redditizia fabbrica di confetti di famiglia. Ma da Bologna, città ormai distrutta ed affamata dalla guerra, arriva una lettera che cambierà lentamente e per sempre la vita di Giordano: a scrivere è la cognata Lilliana (Katia Ricciarelli), una donna matura e di dubbi costumi, vedova - da pochi mesi - di suo fratello e segretamente amata durante l’adolescenza. Giordano la invita subito nella grande e ricca masseria di Torre Canne dove vive, suscitando immediatamente le irose opposizioni delle zie. Dopo un fortunoso viaggio a bordo di un’auto prontamente rubata dal giovane e scaltro figlio di Lilliana, il profittatore Nino (Neri Marcorè), l’accoglienza in Puglia non è delle migliori; Giordano è l’unico ad essere gentile ma è talmente al colmo dell’emozione che risulta più impacciato del solito mentre Lilliana si rende dolorosamente conto della sua fragilità psichica. L’estrema bravura del regista sta nel tessere una delicata trama di emozioni, desideri, aspirazioni e dolori, in cui si accendono qua e là delicate tinte ironiche che non stonano nel costituirsi di una dolce schermaglia amorosa in cui l’esitazione è tutto. L’affetto di Lilliana per questo uomo così ricco di bontà e di sensibilità cresce sempre di più e si rafforza in seguito a due eventi: Giordano riesce a procurare allo scapestrato Nino un posto da avvocato e lo toglie dai guai quando tenta di sedurre la figlia del notaio. In un clima di sottile miracolo tutte le divergenze possono appianarsi e i due consumare, in un trionfo d’amore platonico, la tanto desiata seconda notte di nozze. Ennesima prova sinergica di sceneggiatura e regia da parte di Pupi Avati. Il regista può dirsi fiero di aver evitato lo stereotipo del matto-saggio; al candore di Giuliano Ricci, alla sua predisposizione e stupefazione, va ad aggiungersi un ruolo di grande utilità sociale, quello dell’artificiere. Avati, supportato da location di luminosa bellezza e da un ottimo cast artistico, (basti pensare all’inedita prova della debuttante Ricciarelli, alla bravura di Marcorè nel restituire un personaggio detestabile e così antitetico rispetto al Nello di Il cuore altrove, alla straordinarietà di Albanese) fa trionfare i buoni sentimenti senza ombra alcuna di retorica, è semplice e diretto nello stile e arriva dritto al cuore dello spettatore con fare delicato, dipingendo un percorso che vede rovesciato il classico itinerario verso il nord che tanti meridionali avrebbero affrontato in cerca di opportunità solo pochi anni dopo. Un film compiuto e soave, colmo di dolce malinconia.